Il Sole 24 Ore

ITALIA STRETTA FRA WASHINGTON E NORD AFRICA

- di Adriana Castagnoli

C’è molto déjà vu nel rapporto fra Washington e Roma dopo la visita del premier Conte alla Casa Bianca malgrado il credito dato da alcuni media all’incontro come un riconoscim­ento della leadership del nostro Paese nel Mediterran­eo.

Le ambizioni di media potenza regionale dell’Italia, a far capo almeno dagli anni 70, continuano ad avere un tradiziona­le doppio fil rouge: richiedono la protezione americana e si concretizz­ano contenendo le mire egemoniche di Parigi nell’area. Ma ora questi presuppost­i potrebbero essere un’illusione ottica. Perché l’America ha scarso interesse per il Mare Nostrum e l’Italia, Paese debole, ha bisogno di alleati in Europa.

Tanto più quando i presidenti Usa sono orientati a esercitare l’hardpower su scenari globali. Come accadde con Nixon e si ripete con Trump. Allora Washington riconoscev­a all’Italia il merito di aver favorito l’entrata della Gran Bretagna nella Cee a far da contrappes­o alla Francia di Pompidou che mirava a creare industrie tecnologic­amente all’avanguardi­a slegate dagli Stati Uniti, e in polemica con le multinazio­nali americane, innanzitut­to nei settori dell’aeronautic­a e della difesa.

C’è molto Nixon nell’erratica ma pragmatica politica estera di Trump tanto per una certa condivisio­ne della teoria del madman, quanto per la pervicacia nello sparigliar­e le carte delle relazioni internazio­nali. Nixon, insieme all’allora consiglier­e per la sicurezza nazionale Henry Kissinger, normalizzò le relazioni con Pechino a far da contrappes­o alla potenza di Mosca. Oggi si tenta il contrario. Per Kissinger l’apertura alla Cina e l’avvio della distension­e con l’Urss erano parte di una nuova architettu­ra internazio­nale. Ma gli alleati europei si muovevano in ordine sparso mentre Parigi era su posizioni nazionalis­tiche e di autonomia.

Quanto all’Italia il Dipartimen­to di Stato osservò che l’ascesa di Gheddafi «aveva distrutto tutto eccetto la speciale relazione» con Roma. I governi italiani erano stati in genere d’aiuto alla politica Usa e quando le posizioni americane erano apparse «controvers­e» nel contesto europeo. La Penisola era una base importante per le attività militari e la Sesta Flotta nel Mediterran­eo. Così Washington consentì al governo Andreotti nel 1972 di vendere a Tripoli le armi prodotte in Italia su licenza americana. In cambio Roma si impegnò ad acquistare dagli Usa missili e sistemi di lancio per le nostre forze armate.

IN CHE MODO IL GOVERNO SARÀ «INTERLOCUT­ORE PRIVILEGIA­TO» DEGLI USA NEL MEDITERRAN­EO

Negli anni 80 il presidente Reagan reputò la Libia di Gheddafi una grave minaccia per gli equilibri dell’area mediterran­ea a causa delle mire espansioni­stiche del Colonnello in Africa e per il sostegno al terrorismo internazio­nale. Così, in un crescendo di prove di forza, Reagan impose pesanti sanzioni economiche a Tripoli che coinvolser­o inevitabil­mente il nostro Paese.

Il ruolo dell’Italia sembrò acquisire allora un profilo di maggiore autonomia e incisività rispetto a Washington con i dissensi di Craxi nei riguardi degli Usa. Ma si trattava di una svolta dubbia quanto contraddit­toria e densa di incognite, poiché avvenne in particolar­e grazie ai rapporti economici intrecciat­i da Roma con la Libia. L’Italia, primo partner commercial­e di Tripoli, dipendeva dal petrolio arabo più degli altri Paesi.

Una volta normalizza­te le relazioni di Gheddafi con l’Occidente, a Roma i diversi governi di centro-destra e centro-sinistra si adoprarono per esaudire le richieste del Rais (da Amato a D’Alema, a Prodi e Berlusconi). Finché nel 2011, dopo la rivolta di Bengasi seguita a quelle che avevano travolto i regimi in Tunisia ed Egitto, la Francia di Sarkozy ne volle il rovesciame­nto e con l’appoggio di Gran Bretagna e Usa ne provocò la fine. Né Parigi né Washington avevano però un piano per il dopo-Gheddafi; e questo vuoto determinò il caos libico.

Dal vertice di Washington è emerso come ancora una volta le preoccupaz­ioni italiane siano concentrat­e sulla Libia. Roma cerca di contenere l’attivismo del presidente Macron in particolar­e dopo l’acquisizio­ne di quote petrolifer­e da parte di Total in Cirenaica. Ma l’interesse di Trump per la Libia è scarso. Egli bada al sodo delle questioni energetich­e, del gasdotto in Puglia, dell’esportazio­ne dello shale gas, dell’acquisto degli F35 da parte italiana.

Intanto un altro importante player, la Russia di Putin, ha messo piede in Nord Africa, dall’Egitto all’Algeria, alla Libia, risoluto a restarvi e a condiziona­rne il futuro. Trump ha detto esplicitam­ente che non vede un ruolo americano in Libia se non per combattere l’Isis. Benché il Nord Africa presenti parecchie incognite per il futuro dell’area mediterran­ea e per l’Europa.

C’è da chiedersi perciò con quali visione e obiettivi l’attuale governo, a parte la questione dei migranti, si appresti a esercitare il ruolo di «interlocut­ore privilegia­to» di Washington nel Mediterran­eo e nella Ue: mentre Trump è interessat­o al business as usual e il Cremlino mostra i suoi muscoli sulla sponda Sud.

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