ITALIA STRETTA FRA WASHINGTON E NORD AFRICA
C’è molto déjà vu nel rapporto fra Washington e Roma dopo la visita del premier Conte alla Casa Bianca malgrado il credito dato da alcuni media all’incontro come un riconoscimento della leadership del nostro Paese nel Mediterraneo.
Le ambizioni di media potenza regionale dell’Italia, a far capo almeno dagli anni 70, continuano ad avere un tradizionale doppio fil rouge: richiedono la protezione americana e si concretizzano contenendo le mire egemoniche di Parigi nell’area. Ma ora questi presupposti potrebbero essere un’illusione ottica. Perché l’America ha scarso interesse per il Mare Nostrum e l’Italia, Paese debole, ha bisogno di alleati in Europa.
Tanto più quando i presidenti Usa sono orientati a esercitare l’hardpower su scenari globali. Come accadde con Nixon e si ripete con Trump. Allora Washington riconosceva all’Italia il merito di aver favorito l’entrata della Gran Bretagna nella Cee a far da contrappeso alla Francia di Pompidou che mirava a creare industrie tecnologicamente all’avanguardia slegate dagli Stati Uniti, e in polemica con le multinazionali americane, innanzitutto nei settori dell’aeronautica e della difesa.
C’è molto Nixon nell’erratica ma pragmatica politica estera di Trump tanto per una certa condivisione della teoria del madman, quanto per la pervicacia nello sparigliare le carte delle relazioni internazionali. Nixon, insieme all’allora consigliere per la sicurezza nazionale Henry Kissinger, normalizzò le relazioni con Pechino a far da contrappeso alla potenza di Mosca. Oggi si tenta il contrario. Per Kissinger l’apertura alla Cina e l’avvio della distensione con l’Urss erano parte di una nuova architettura internazionale. Ma gli alleati europei si muovevano in ordine sparso mentre Parigi era su posizioni nazionalistiche e di autonomia.
Quanto all’Italia il Dipartimento di Stato osservò che l’ascesa di Gheddafi «aveva distrutto tutto eccetto la speciale relazione» con Roma. I governi italiani erano stati in genere d’aiuto alla politica Usa e quando le posizioni americane erano apparse «controverse» nel contesto europeo. La Penisola era una base importante per le attività militari e la Sesta Flotta nel Mediterraneo. Così Washington consentì al governo Andreotti nel 1972 di vendere a Tripoli le armi prodotte in Italia su licenza americana. In cambio Roma si impegnò ad acquistare dagli Usa missili e sistemi di lancio per le nostre forze armate.
IN CHE MODO IL GOVERNO SARÀ «INTERLOCUTORE PRIVILEGIATO» DEGLI USA NEL MEDITERRANEO
Negli anni 80 il presidente Reagan reputò la Libia di Gheddafi una grave minaccia per gli equilibri dell’area mediterranea a causa delle mire espansionistiche del Colonnello in Africa e per il sostegno al terrorismo internazionale. Così, in un crescendo di prove di forza, Reagan impose pesanti sanzioni economiche a Tripoli che coinvolsero inevitabilmente il nostro Paese.
Il ruolo dell’Italia sembrò acquisire allora un profilo di maggiore autonomia e incisività rispetto a Washington con i dissensi di Craxi nei riguardi degli Usa. Ma si trattava di una svolta dubbia quanto contraddittoria e densa di incognite, poiché avvenne in particolare grazie ai rapporti economici intrecciati da Roma con la Libia. L’Italia, primo partner commerciale di Tripoli, dipendeva dal petrolio arabo più degli altri Paesi.
Una volta normalizzate le relazioni di Gheddafi con l’Occidente, a Roma i diversi governi di centro-destra e centro-sinistra si adoprarono per esaudire le richieste del Rais (da Amato a D’Alema, a Prodi e Berlusconi). Finché nel 2011, dopo la rivolta di Bengasi seguita a quelle che avevano travolto i regimi in Tunisia ed Egitto, la Francia di Sarkozy ne volle il rovesciamento e con l’appoggio di Gran Bretagna e Usa ne provocò la fine. Né Parigi né Washington avevano però un piano per il dopo-Gheddafi; e questo vuoto determinò il caos libico.
Dal vertice di Washington è emerso come ancora una volta le preoccupazioni italiane siano concentrate sulla Libia. Roma cerca di contenere l’attivismo del presidente Macron in particolare dopo l’acquisizione di quote petrolifere da parte di Total in Cirenaica. Ma l’interesse di Trump per la Libia è scarso. Egli bada al sodo delle questioni energetiche, del gasdotto in Puglia, dell’esportazione dello shale gas, dell’acquisto degli F35 da parte italiana.
Intanto un altro importante player, la Russia di Putin, ha messo piede in Nord Africa, dall’Egitto all’Algeria, alla Libia, risoluto a restarvi e a condizionarne il futuro. Trump ha detto esplicitamente che non vede un ruolo americano in Libia se non per combattere l’Isis. Benché il Nord Africa presenti parecchie incognite per il futuro dell’area mediterranea e per l’Europa.
C’è da chiedersi perciò con quali visione e obiettivi l’attuale governo, a parte la questione dei migranti, si appresti a esercitare il ruolo di «interlocutore privilegiato» di Washington nel Mediterraneo e nella Ue: mentre Trump è interessato al business as usual e il Cremlino mostra i suoi muscoli sulla sponda Sud.