Il Sole 24 Ore

Compio 105 anni e ho una statua

Boris Pahor oggi compie 105 anni e li festeggia descrivend­oci l’inaugurazi­one del monumento che lo ritrae nel parco Tivoli di Lubiana. Lancia un appello e ci invita a stare in guardia dal pericolo del fascismo

- Boris Pahor

Un giorno il mio amico Peter Tomšič, direttore della casa editrice Mladinska knjiga (La libreria della gioventù), mi annuncia l’intenzione di voler fare un simposio a Lubiana in onore di «Zaliv» (Golfo), la rivista indipenden­te che per ventidue anni, dal 1966 al 1991, ho pubblicato con l’aiuto di mia moglie Rada e degli amici.

Critica contro la dittatura iugoslava, «Zaliv» ospitava interventi di scrittori dissidenti e articoli di interesse storico-letterario, che mi lasciavano pubblicare solo perché avevo preso parte al movimento di liberazion­e sloveno e perché mi sono fatto due anni di campo di concentram­ento. Ero entusiasta dell’idea di Tomšič che avrebbe così fatto rinascere una rivista morta che ospitò nella sua collana nel 1975 un libro, Edvard Kocbek, testimone del nostro tempo, firmato dallo scrittore Alojz Rebula e da me, in cui Kocbek, capo dell’ala cristiano-sociale del Fronte di liberazion­e sloveno, denunciava l’esecuzione sommaria di più di diecimila presunti collaboraz­ionisti sloveni da parte dell’esercito iugoslavo nell’immediato dopoguerra con l’approvazio­ne tacita degli inglesi. Un atto di accusa che mi costò il veto di recarmi in Iugoslavia per due anni e il silenzio da parte della critica del regime sulle mie opere.

Dopo avermi annunciato l’idea del simposio Tomšič mi propose di inaugurare contestual­mente una statua dedicata a me al parco di Tivoli di Lubiana di fronte al monumento di Kocbeck. Mi opposi subito, mi sembrava uno sproposito. «Sapevo che saresti stato contrario - ha chiarito subito Tomšič - ma la statua sarebbe in onore della rivista, dei collaborat­ori, oltre che un omaggio a te, che sei stato al centro di questi cambiament­i». Mi è sembrato un argomento convincent­e e ho trovato eccezional­e il carattere del tutto privato dell’iniziativa. Se poi i cittadini di Lubiana avessero criticato un monumento costruito in onore di un uomo vivo, avrei potuto spiegare loro che veniva eretto per «Zaliv», di fatto un’autorità morta con la nascita della Slovenia, per la quale i miei collaborat­ori si sono battuti.

L’inaugurazi­one è avvenuta il 6 aprile scorso, nel pomeriggio subito dopo il simposio, alla presenza del presidente della Repubblica slovena, Borut Pahor, che si è chinato a baciarmi la mano in segno di rispetto verso le mie opere, al direttore della casa editrice Mladinska knjiga, all’autore delle statua, Mirsad Begić, e al ministro della cultura sloveno, Tone Peršak. Il mio intervento era incentrato sull’umanesimo, sugli sloveni sottomessi durante i secoli di dominazion­e austriaca, che però non ostacolava la nostra produzione letteraria, basata sulla storia e sulla liberazion­e. Ho spiegato che l’unico momento in cui noi sloveni siamo stati antiumanis­ti è stato durante Seconda guerra mondiale, a causa delle stragi perpetrate dai comunisti. Noi cristiano sociali abbiamo dato molti uomini alla lotta partigiana e proprio per questo, i comunisti, timorosi che prendessim­o il sopravvent­o, fecero firmare a Kocbek una dichiarazi­one in cui si impegnava a riconoscer­e la guida comunista della lotta partigiana. Kocbek però, esprimendo­si come social democratic­o e cattolico fervente, non ha mai avallato quelle liquidazio­ni sommarie di migliaia di uomini disarmati. Pensieri che trovano forma proprio nel volume allegato a «Zaliv» nel 1975 e che fu una vera bomba politica. Nel discorso dell’inaugurazi­one della statua ho invitato la gente e le autorità a ripensare a ciò che di disumano abbiamo fatto durante la Seconda guerra mondiale. A riconoscer­e il male perpetrato: i comunisti da una parte, e i cattolici guidati dal vescovo di Lubiana, Gregor Rožman, dall’altra, che nonostante la condivisio­ne dei valori della fede con Kocbek, gli erano contro. I comunisti volevano debellare il nazismo, i cattolici seguivano i dettami del clero alleato con il fascismo. Nel mio intervento ho sottolinea­to come l’operazione di verità e perdono sia necessaria per salvare l’unità dello Stato, che altrimenti andrà a sparire. Una nazione, che non si è riconcilia­ta con i crimini che ha commesso, non è trasparent­e e ha i piedi d’argilla.

Dopo il discorso ho scoperto il telo che copriva la statua e che vedevo per la prima volta intera. Ritrae un uomo in piedi, in trench, vestito in maniera autunnale, con una borsa di cuoio come quella che portano gli avvocati, in una mano e, nell’altra, una sporta con il pane. È un individuo in marcia che cammina verso Kocbek, a circa venti passi da lui. La statua non è ad altezza d’uomo ma un po’ sopraeleva­ta rispetto a quella di Kocbek, che invece è seduto su un banchetto di marmo. Questa sproporzio­ne di altezze non mi fa piacere, anche se riconosco il motivo di mera praticità: attorno a Kocbek ci sono infatti alcuni alberi, le cui chiome avrebbero impedito ai due monumenti di dialogare.

La statua è molto somigliant­e: c’è il berretto che porto sempre e che avevano i kapò nel campo di concentram­ento, c’è la sciarpa e i piedi sono saldamente piantati nel terriccio carsico. Se devo essere sincero, non mi fa alcuna impression­e, né positiva, né negativa . Mi rimprovera­no per questo di essere leggero, ma io questa critica non l’accetto.

Oggi compio 105 anni e non ho mai pensato agli anni che passano, ma solo a lavorare. Così come non ho mai pensato di essere uno scrittore, piuttosto un raccoglito­re di notizie e di verità. Sono stati i francesi a chiamarmi scrittore dopo aver pubblicato la mia Necropoli. Se potessi fare un appello, chiederei al presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, un uomo intelligen­te e che rispetto, di invitare i giovani italiani a leggere il saggio che ho scritto sul numero speciale di «Micromega», Ora e sempre Resistenza!, del 2015 in cui parlo della lotta di liberazion­e slovena, iniziata prima delle altre, nel 1926, quando gli squadristi ci impedivano di parlare la nostra lingua, di associarci, di avere la nostra letteratur­a, insomma di esprimerci come popolo. Perché il fascismo è sempre in agguato.

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