Tutti gli eccentrici dell’«Isola dei baci»
Gilbert Clavel, egittologo, scrittore e milionario erede svizzero, abito a tre pezzi, sigaretta in una mano e anello nobiliare nell’altra, porta la mano alla fronte, a lambire il curioso copricapo che indossa: un imbuto di metallo. Accanto a lui, papillon, viso da guascone e piedi convergenti in posa innaturale, il suo protetto, Fortunato Depero, che “indossa” niente meno che un cavalletto di legno. Il sole picchia, la polvere imbianca le scarpe, la strada dirupata confonde nel bianco accecante la buffa posa dei due complici, il lungo e il gobbo, «o ’scartelluzzo», come i villani chiamano il ricco Clavel. Stanno provando dei «Balli plastici» («Mimica!» recita la dida autografa), è il 1917, e sono gli ennesimi esponenti di un irripetibile momento che vive e si vive nell’isola di Capri. In tutto il primo Novecento qui l’avanguardia è di casa, il nomadismo intellettuale una realtà, l’apertura e la tolleranza verso l’omosessualità e l’eccentricità un fatto normale, un favore alla storia. Capri ammalia, e attira: è il luogo dove si coltiva l’impossibile, le idee circolano e a nessuno importa se non sono ortodosse, anzi meglio: all’azzurro del cielo e del mare corrisponde una celestialità di progetti; la bellezza ineffabile dell’isola e la seclusione che con sé porta l’idea stessa di essere lontani da tutto, ma non troppo, sono un cocktail inebriante per anime sensibili e intelligenze acuminate. Capri è un crogiuolo di alternative, isola che custodisce il gusto dell’inusitato. Un libro come Capri. Frammenti postumi 1905-1940 di Lea Vergine (con la preziosa collaborazione di Elisabetta Fermani e Sergio Lambiase), che ora rivede la luce meritoriamente per Il Saggiatore (peccato solo che non ci siano tutte le illustrazioni di precedenti edizioni), non è solo il regesto precisissimo e trasognato di quelle vicende purtroppo ormai lontante: è, insieme, una necessaria, amara, constatazione di come le cose siano cambiate e Capri (e non solo) sia appunto “postuma” di sé stessa e di quei personaggi. Eccoli allora nella strepitosa sequenza di Lea Vergine: «dissidenti vittoriani, esteti dannunziani, facoltosi disoccupati, dilettanti supremi», e, ancora, «anarchici, socialisti, futuristi, poeti e profeti russi e mitteleuropei, in malattia e stravaganza, nella teorizzazione politica di respiro internazionale come nella ricerca di nuove forme di linguaggio», che sulla piazzetta, al caffè, o in clausura, lavorarono, amoreggiarono, si incontrarono e dissero addio nell’isola della Grotta azzurra, da cui tutto ebbe inizio.
Un destino, più che un luogo, il cui magmatico vissuto percola nelle esistenze febbrili di donne e uomini unici, come la marchesa Casati Stampa che, ovviamente, non può mancare e scende ad “occupare” la Villa san Michele di Axel Munthe, lei e i suoi levrieri, le sue messe nere e la sua magnifica figura, capelli di fuoco e occhi di brace, che stregherà anche l’inquieta pittrice Romaine Brooks. Il culto della bellezza di un dandy come Jacques d’Adelsward-Fersen, schiavo dell’oppio, come il “collega” Vannicola lo era dell’assenzio, i tedeschi, gli industriali, i ricchi scappati di casa e le famiglie locali, con Edwin Cerio, re occulto dell’isola, che ne coglie essenza e maledizione e, tra l’altro, organizza quel congresso per la tutela del paesaggio (1922!) che è già opera d’avanguardia. E lo fa alla presenza di un tromboneggiante Marinetti, mai appassionato da tali questioni. I futuristi, sull’isola, erano di casa. Oltre Depero (che dello stesso Clavel organizzerà un libro “premonitore” come Un istituto per suicidi), ecco Prampolini, e Cangiullo, e le mostre, e le solite chiassate, e le serate danzanti, fino al romanzo di Marinetti, con Bruno Corra: L’isola dei baci (1918), o all’«Eros» rivisto e rivista rivelata da Italo Tavolato. E poi Benjamin che corteggia Asja Lacis, e la colonia dei russi, un pezzo non indifferente della rivoluzione sovietica. Nell’isola ferve una “scuola di partito” ai limiti dell’ortodossia, e qui toccherà allo stesso Lenin calare per tenere d’occhio i rivali; le sfide a scacchi, di cui resta qualche foto, con Bogdanov e altri, sono metafora di ben altre lotte. Capri, del resto, era la base di una star come Maksim Gorkij. Dei due resta un memorabile scambio, la dura reprimenda che Lenin un giorno fa a Gorkij e che quest’ultimo riferisce a Giuseppe Sprovieri. «Capri fa dimenticare tutto» gli rimprovera il padre della rivoluzione: ed è pura verità e sottile preveggenza, che Lea Vergine, in un ennesimo passaggio caprese del 2006, in chiusura di libro, fa inevitabilmente suo. Sì, Capri fa dimenticare tutto, compresa la sua stessa grandezza. I cinque big della letteratura americana ospiti delle «Conversazioni» (tra i quali Franzen e Foster Wallace, idoli dei “tifosi” di letteratura di oggi), vengono liquidati, sublime snob, in poche righe: inconsapevoli e immemori come sono di ciò che si ritrovano davanti: un infinito geografico così nitido, e una Storia, che non passa, più grandi di loro. Un sogno d’isola, che non sa più d’esserlo. Perché, alla fine, la verità di questo libro è questa: i luoghi esistono solo se qualcuno li sa e può raccontare, se ci sono storie e uomini e donne come questi. Altrimenti, certo, un’isola è un’isola è un’isola; ma a non dirla, a non mitizzarla, è tutto nuvole e sciabordìo d’onde, albe e rugiade, tramonti e notti di stelle troppo lontane; vento che passa, e se ne infischia.
I futuristi, Edwin Cerio, i dandy e la colonia russa nei frammenti postumi
di Lea Vergine