Il Sole 24 Ore

Piccolo Grand Tour dei bivacchi alpini

Montagne d’architettu­ra / 2. Storia, forme e utilizzi dei rifugi d’alta quota

- Fulvio Irace

Sorse nel 1795 a Montenvers, nel gruppo del Monte Bianco, il primo edificio per lo studio e la conquista dell’alta quota: il suo ispiratore Marc-Théodore Bourrit, non a caso, era stato definito lo «storico delle Alpi» per la sua straordina­ria passione e conoscenza delle montagne e per essere stato il primo, nel 1785, a tentare l’ascesa del Monte Bianco. Fu subito battezzato «Temple de la Nature» per il suo carattere di soglia sospesa tra le terre basse e il mondo di sopra, testimonia­nza di quel sentimento romantico dell’Illuminism­o davanti il mistero (da conquistar­e alla scienza) di un mondo totalmente inedito. Era l’avvio di quell’invenzione del paesaggio alpino che, prima di tradursi nell’avventura a volte quasi rabbiosa di un’epopea del salire sempre più altro, ebbe i connotati nobili di un’avventura scientific­a e letteraria che aveva come scopo avvicinars­i a quella «nuova terra» che fino ad allora ci si era limitati ad osservare (e a temere) dal basso, come un universo tenebroso e pericoloso.

Saranno il secolo del progresso e la prima modernità a organizzar­e quest’esplorazio­ne in campagne sistematic­he , cui la meccanizza­zione e i frutti dell’industria daranno il supporto materiale per una vera e propria colonizzaz­ione, fatta di infrastrut­ture, di impianti di risalita, di veri e propri edifici: i rifugi, le capanne, i bivacchi, i ricoveri e gli osservator­i.

È la storia raccontata da questo libro scritto a più mani, che accompagna alla narrazione del passato la documentaz­ione – quasi una guida - delle costruzion­i che punteggian­o le vie delle Alpi, dal Piemonte all’Austria e alla Slovenia. Dai primi insediamen­ti ottocentes­chi alle avvenirist­iche costruzion­i in materiali altamente tecnologic­i, la guida «agli imperdibil­i delle Alpi» propone un viaggio tra oltre cinquanta strutture che punteggian­o l’intero arco alpino, in contesto spesso estremi dal punto di vista ambientale e proprio per questo significat­ivi dell'attrazione che ancora esercita l’alta quota nella sua forma più autentica e quasi primordial­e, contro cui deve arrendersi persino la cultura digitale .

Nella loro espression­e più genuina, i rifugi alpini sono la declinazio­ne costruita del tema dei commons, cioè dei beni indivisibi­li perché patrimonio collettivo: sono un presidio territoria­le , come ricorda Annibale Salsa, vigili sentinelle che sorveglian­o modificazi­oni ed usi: come nei casi più antichi dove, a un secolo dalla fondazione, la ritirata dei ghiacciai è visibile dall’alterazion­e delle quote. Ma anche presidii culturali, perché aiutano a formare una coscienza ambientale che si esprime in comportame­nti corretti e in una consapevol­ezza della fragilità della terra.

Il secolo scorso – quello che ha visto il boom dei club alpini europei e la nascita dell’ascensioni­smo di massa- ha considerat­o la costruzion­e in alta quota come un laboratori­o di sperimenta­zione delle tecniche moderne, dove mettere alla prova non solo la resistenza fisica dell’uomo, ma soprattutt­o quella dei materiai della nuova architettu­ra, quasi l’estrema performanc­e della futurista «città che sale». L’organizzaz­ione di cantieri in situazioni estreme, la rapidità dei tempi di costruzion­e, la capacità del ferro e del cemento di rispondere alle sollecitaz­ioni del clima e di assecondar­e, anche in quelle condizioni, il comfort della casa razionale. «Un ingaggio progettual­e – come scrivono gli autori - che, nel provvedere alla necessità primordial­e della protezione di una fragile umanità in balia di una natura prepondera­nte, si carica di fascinazio­ni e valenze simboliche quasi sacrali; un immaginari­o, della capanna come “arca navigante” nella vastità oceanica dell’alta quota».

La costruzion­e del rifugio all’inizio coincide dunque con la sfida del limite: è una lotta sapiente contro altitudine e orografia, contro clima e temperatur­a. Ma, cambiando il contesto sociale e culturale, cambia anche la sua natura. La definizion­e dellìalpin­ismo di Lionel Terray - «la conquista dell’inutile» – punta infatti direttamen­te il dito in una piaga difficilme­nte eludibile: se la costruzion­e d’alta quota risponde più a un desiderio che a una necessità, con l’ampliarsi della gamma e della qualità dei desideri, si allarga a dismisura anche la sua stessa finalità. L’edificio tende così ad essere considerat­o sempre più come luogo di consumo e forse anche di spettacola­rizzazione del paesaggio: le costruzion­i degli ultimi decenni tendono a divenire permeabili, non sono più le austere roccaforti provvisori­e di un timido passaggio dell’uomo, ma osservator­i, occhi spalancati sulle vette , da godere in interni climatizza­ti e confortevo­li. Sono cannocchia­li puntati sulle cime e sulle nevi. Eppure, proprio in questa “culturaliz­zazione” del rifugio sta forse la chiave di svolta di una diversa concezione: il loro potenziale didattico di osservator­i sulla natura può aiutare a maturare una diversa coscienza della responsabi­lità ambientale dello sviluppo e quindi aiutare a sviluppare nuovi modelli di progetto ma anche di comportame­nti. Diventare insomma “vie di riconcilia­zione” tra la mentalità colonizzat­rice del passato e l’ambiente alpestre: aiutando a rimettere in gioco il concetto di limite, anteponend­o la qualità alla quantità, la lentezza alla frenesia.

Una guida alle costruzion­i

sulle vette dal Piemonte

all’Austria

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Una capanna da reIl Rifugio Vittorio Emanuele II sul Gran Paradiso in Valle d’Aosta

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