Il Sole 24 Ore

Spirito di «mumbaikars»

L’essenza operosa della metropoli che ancora molti chiamano Bombay: Bollywood, grattaciel­i e serie tv da un lato, caos e il gigantesco slum di Dharavi dall’altro

- Ugo Tramballi

Quando Mukesh e Anil Ambani decisero di dividersi la conglomera­ta lasciata in eredità dal padre Dhirubhai, la madre Kolikaben chiese aiuto al guru di famiglia. Morari Bapu scese dal Gujarat a Mumbai, ma neanche lui riuscì a convincere i due giovani a lasciare le cose come le aveva lasciate il padre. Non fu una cosa da poco: quella divisione scuoteva le fondamenta morali e comportame­ntali di Corporate India, il sistema privato del Paese, 10mila imprendito­ri del quale vivevano e operavano a Mumbai, garantendo il 3% del Pil nazionale.

Quando il vecchio Dhirubhai presentava il bilancio della sua Reliance Industries, prenotava uno stadio della città per farci stare almeno una piccola parte dei suoi tre milioni di azionisti. Ma la spartizion­e ci fu, l’India e Mumbai sopportaro­no il trauma, e i due fratelli con le loro due conglomera­te separate sono fra i 20 uomini più ricchi del mondo: anno buono, anno cattivo, il patrimonio di Mukesh viaggia attorno ai 20 miliardi di dollari, quello di Anil è di un paio di miliardi di meno. Perché Mumbai, nostalgica­mente Bombay, continua a offrire ai suoi milionari la possibilit­à di diventare ancora più ricchi. Una volta, quando il mondo era meno avido e più equilibrat­o, la città offriva anche ai poveri di diventare qualcuno. Ora molto di meno. Ma se fra tutte le città indiane ce n’è una dove un povero ha più possibilit­à di farcela, quella resta Mumbai.

«Dehli e Mumbai sono come due repubblich­e sovrane che devono ancora stabilire i rapporti diplomatic­i», spiega Shenkhar Gupta, editoriali­sta del quotidiano «Business Standard». «La prima rappresent­a la politica, la seconda il retaggio: la vecchia imprendito­rialità indiana e la finanza ancora molto controllat­a da un piccolo ecosistema di amici e famiglie, interconne­sso da legami matrimonia­li, castali (e sotto-caste o clan)». A Delhi i regimi cambiano dopo le elezioni. A Mumbai l’establishm­ent finanziari­o e capitalist­a è permanente.

L’origine del nome della città è disputato fra laici (sia sul piano religioso che politico) e nazional-religiosi. Bombay dovrebbe derivare dal portoghese bon bahia, datole nel XVI secolo dai navigatori lusitani che attraccaro­no in una delle sette isole con una baia ben protetta e dalle acque profonde. Il rapporto fra la città e il denaro è antico: 350anni fa, sposando Carlo II d’Inghilterr­a, Caterina di Braganza portò in dote la stazione commercial­e portoghese. Qualche anno più tardi Carlo la diede in affitto alla East Indian Company. Il contratto prevedeva undici sterline l’anno, in cambio la Compagnia elargiva alla Corona un prestito da 50mila sterline al tasso d’interesse del 6 per cento. Bon Bahia fu trasformat­a nell’inglese Bombay.

Questa è la versione laica della storia. La nazional-religiosa stabilisce invece che nel terzo secolo avanti Cristo un figlio dell’imperatore hindu Chandragup­ta Maurya aveva conquistat­o le isole, chiamandol­e Mumba in onore della dea Mumba Devi. Comunque sia, nel 1995 il partito dell’estrema destra nazional-religiosa hindu dello Shiv Sena, cambiò d’imperio il nome in Mumbai. «Abbiamo vissuto a Bombay e abbiamo vissuto a Mumbai e qualche volta ho vissuto in entrambi nello stesso momento», ha sintetizza­to lo scrittore newyorkese Suketu Mehta, cresciuto nella città.

Facendo un sondaggio, oggi la maggioranz­a degli abitanti preferireb­be Bombay: molti continuano a chiamarla così. Ma nella sostanza, la città del denaro e delle opportunit­à è scarsament­e interessat­a al problema. I 13 milioni di abitanti della più popolosa città indiana, sono chiamati mumbaikars.

E a loro va bene così. Il “Mumbai’s Spirit” è tante cose. È la Bollywood del cinema indiano (il business dell’entertainm­ent ha preferito non cambiare brand: Mullywood non avrebbe avuto lo stesso effetto); è Dream House, la residenza di Mukesh Ambani, un grattaciel­o da 27 piani e un miliardo di dollari; è l’Oval Maidan circondato dal traffico, dove gli appassiona­ti giocano interminab­ili partite di cricket, gridando «good shot, sir» al battitore; è Colaba Causeway, Marine Drive, Malabar Hill, Worli, Bandra, il caotico Manish Market, il mercato della telefonia più grande dell’India. È Sacred Games, la prima serie tv indiana prodotta da Netflix per raggiunger­e il mercato della tv in streaming che in tre anni è passata da zero a 100 milioni di abbonati. Tratto dal romanzo di Vikran Chandra, Sacred Games è la storia violenta e d’umorismo dark di un poliziotto onesto di origini sikh, ambientata a Mumbai.

Lo spirito della città è anche Dharavi, un milione di immigrati e profughi, lo slum di 175 ettari vicino all’aeroporto Santa Cruz, 27 templi hindu, 11 moschee, 6 chiese e nessun ospedale. Dharavi non è solo la baraccopol­i più grande dell’Asia: è anche il suo più grande centro di produzione del pellame. Piena occupazion­e al cento per cento, sebbene in questo caso s’intenda anche lavoro infantile. È il gigantesco insediamen­to industrial­e della metropoli, nel quale la gente vive dove lavora. Non tanto perché non deve passare ore nel traffico o nella ressa dei treni pendolari, come i mumbaikars. Finito di lavorare per 15/18 ore nel laboratori­o di pellame o di jeans, l’abitante di Dharavi tira fuori il materasso da sotto la macchina utensile e dorme. Per i rurbans, i contadini urbanizzat­i venuti a cercare fortuna, Dharavi è il passaggio obbligato per arrivare alle promesse di Mumbai.

Eppure, superato l’impatto del caos, dell’inimmagina­bile folla e del traffico, dell’umidità nei mesi del monsone che trasforma gli esseri umani in anfibi, di Mumbai non si può fare a meno. Come scrive Salman Rushdie nei Figli

della Mezzanotte, «puoi portare il ragazzo fuori da Bombay; non puoi portare Bombay fuori dal ragazzo. Lo sai».

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AFP Successo «Sacred Games» è la prima serie tv indiana prodotta da Netflix per raggiunger­e il mercato della tv in streaming che in tre anni è passata da0 a 100 milioni di abbonati. «Sacred Games» è ambientata a Mumbai

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