L’insufficienza delle azioni umanitarie
Politiche condivisibili non eliminano problemi strutturali
Chiunque guardi un telegiornale può riconoscere un’abitudine ormai diffusa allo spettacolo del dolore e del soccorso organizzato: le tragedie del Mediterraneo ce ne offrono numerosi esempi. Nel suo ricchissimo saggio sulla
Ragione umanitaria, l’antropologo Didier Fassin definisce umanitarismo questo complesso paesaggio morale, da cui deriva una forma di governo - inteso in senso ampio - di corpi e vite in situazioni particolarmente violente e difficili: il caso principe è l’azione di organizzazioni non governative.
Il tema è assai scomodo. Fassin indaga pratiche che qualsiasi democratico difende in toto e automaticamente, per reazione al crescente razzismo (anche istituzionale). Ma è proprio in questo automatismo che si annida un rischio: sostituire alla richiesta di giustizia sociale la vittimizzazione; al lessico dei diritti, quello dei sentimenti. Anche quando l’azione umanitaria è motivata dall’altruismo più puro, in essa giace un’asimmetria di fondo — una «tensione fra disuguaglianza e solidarietà e fra relazione di dominazione e relazione di aiuto reciproco».
Il patto delle politiche di soccorso presuppone una compassione a senso unico. Nei confronti delle vittime di catastrofi naturali come di guerre o carestie ci aspettiamo «l’umiltà dell’obbligato, non la rivendicazione dell’avente diritto». La questione ha a che fare con la politica e non con la psicologia: la ragione umanitaria, attraverso il discorso emozionale, governa vite precarie nel senso etimologico del termine — «esistenze che non sono assicurate ma concesse attraverso la preghiera, ovvero che non sono definite nell’assoluto di una condizione, ma nella relazione con coloro che hanno potere su quelle stesse esistenze».
A supporto dell’ipotesi Fassin porta numerosi studi etnografici. La prima parte di Ragione umanitaria si concentra sul territorio francese, con casi per lo più legati agli aiuti ai lavoratori e alla regolarizzazione degli stranieri attraverso analisi mediche; mentre la seconda apre lo sguardo a conflitti globali. Regimi di ospitalità, governo dei rifugiati, interventi a favore dei poveri, missioni sul campo: sono tutte pratiche che alimentano una vicinanza emotiva, ma che di fatto non riescono a sconfiggere il problema strutturale della diseguaglianza. (I ricchi si salvano sempre più in fretta dei poveri). Al più, «l’umanitarismo ispira la fantasia di una comunità morale globale ancora realizzabile e la fiducia in una solidarietà con potere di redenzione». Dove l’ultima parola va intesa in senso forte: è il potere auto-assolutorio di chi salva su chi viene salvato. Da qui il consenso globale verso tali attività: esse colmano «in maniera fugace e illusoria le contraddizioni del nostro mondo, rendendo l’intollerabilità delle sue ingiustizie in qualche modo tollerabili».
A questo punto il lettore si domanderà quale sia la via d’uscita: se anche il paradigma umanitario occulta simili incrostazioni, bisogna abbandonarsi alla quiescenza? No, certo: nella conclusione del saggio, Fassin riconosce di abitare la contraddizione — lui stesso ha fornito certificati medici per stranieri da regolarizzare — e di mantenersi in una posizione di frontiera: senza cedere in alcun modo al cinismo, ma obbedendo a un modello di critica radicale. Non si tratta insomma di giudicare la legittimità delle azioni umanitarie, bensì di comprendere «cosa diventa leggibile e cosa invisibile» attraverso di esse. È importante ribadirlo, perché in certe pagine Ragione umanitaria potrà sollevare perplessità e a volte anche rabbia: ma lungi da sminuirne il valore, ciò forse lo accresce.
L’umanitarismo
alimenta una vicinanza emotiva e la fantasia di una
comunità morale