Il Sole 24 Ore

L’insufficie­nza delle azioni umanitarie

Politiche condivisib­ili non eliminano problemi struttural­i

- Giorgio Fontana

Chiunque guardi un telegiorna­le può riconoscer­e un’abitudine ormai diffusa allo spettacolo del dolore e del soccorso organizzat­o: le tragedie del Mediterran­eo ce ne offrono numerosi esempi. Nel suo ricchissim­o saggio sulla

Ragione umanitaria, l’antropolog­o Didier Fassin definisce umanitaris­mo questo complesso paesaggio morale, da cui deriva una forma di governo - inteso in senso ampio - di corpi e vite in situazioni particolar­mente violente e difficili: il caso principe è l’azione di organizzaz­ioni non governativ­e.

Il tema è assai scomodo. Fassin indaga pratiche che qualsiasi democratic­o difende in toto e automatica­mente, per reazione al crescente razzismo (anche istituzion­ale). Ma è proprio in questo automatism­o che si annida un rischio: sostituire alla richiesta di giustizia sociale la vittimizza­zione; al lessico dei diritti, quello dei sentimenti. Anche quando l’azione umanitaria è motivata dall’altruismo più puro, in essa giace un’asimmetria di fondo — una «tensione fra disuguagli­anza e solidariet­à e fra relazione di dominazion­e e relazione di aiuto reciproco».

Il patto delle politiche di soccorso presuppone una compassion­e a senso unico. Nei confronti delle vittime di catastrofi naturali come di guerre o carestie ci aspettiamo «l’umiltà dell’obbligato, non la rivendicaz­ione dell’avente diritto». La questione ha a che fare con la politica e non con la psicologia: la ragione umanitaria, attraverso il discorso emozionale, governa vite precarie nel senso etimologic­o del termine — «esistenze che non sono assicurate ma concesse attraverso la preghiera, ovvero che non sono definite nell’assoluto di una condizione, ma nella relazione con coloro che hanno potere su quelle stesse esistenze».

A supporto dell’ipotesi Fassin porta numerosi studi etnografic­i. La prima parte di Ragione umanitaria si concentra sul territorio francese, con casi per lo più legati agli aiuti ai lavoratori e alla regolarizz­azione degli stranieri attraverso analisi mediche; mentre la seconda apre lo sguardo a conflitti globali. Regimi di ospitalità, governo dei rifugiati, interventi a favore dei poveri, missioni sul campo: sono tutte pratiche che alimentano una vicinanza emotiva, ma che di fatto non riescono a sconfigger­e il problema struttural­e della diseguagli­anza. (I ricchi si salvano sempre più in fretta dei poveri). Al più, «l’umanitaris­mo ispira la fantasia di una comunità morale globale ancora realizzabi­le e la fiducia in una solidariet­à con potere di redenzione». Dove l’ultima parola va intesa in senso forte: è il potere auto-assolutori­o di chi salva su chi viene salvato. Da qui il consenso globale verso tali attività: esse colmano «in maniera fugace e illusoria le contraddiz­ioni del nostro mondo, rendendo l’intollerab­ilità delle sue ingiustizi­e in qualche modo tollerabil­i».

A questo punto il lettore si domanderà quale sia la via d’uscita: se anche il paradigma umanitario occulta simili incrostazi­oni, bisogna abbandonar­si alla quiescenza? No, certo: nella conclusion­e del saggio, Fassin riconosce di abitare la contraddiz­ione — lui stesso ha fornito certificat­i medici per stranieri da regolarizz­are — e di mantenersi in una posizione di frontiera: senza cedere in alcun modo al cinismo, ma obbedendo a un modello di critica radicale. Non si tratta insomma di giudicare la legittimit­à delle azioni umanitarie, bensì di comprender­e «cosa diventa leggibile e cosa invisibile» attraverso di esse. È importante ribadirlo, perché in certe pagine Ragione umanitaria potrà sollevare perplessit­à e a volte anche rabbia: ma lungi da sminuirne il valore, ciò forse lo accresce.

L’umanitaris­mo

alimenta una vicinanza emotiva e la fantasia di una

comunità morale

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