Il Sole 24 Ore

Tutti coloro che non chiamiamo rifugiati

tra milioni d’uomini che non hanno o non vogliono asilo

- Lara Ricci © RIPRODUZIO­NE RISERVATA @lararicci

Abituati come siamo a un racconto della storia che poggia sui territori, ci perdiamo un’altra storia, quella di chi una terra non ce l’ha più, «la macchia scura che passa le frontiere sulle carte geografich­e e ne dissolve le forme» (Derek Walcott in Migranti). Coloro che hanno abbandonat­o le proprie case e vivono anche per tutta la vita in abitazioni di fortuna o nel limbo di campi profughi, l’1% della popolazion­e mondiale, 65 milioni di persone di cui solo un terzo ha attraversa­to confini nazionali, il resto è sfollato nel proprio paese.

Non siamo rifugiati, del giornalist­a catalano Agus Morales, spostandos­i attraverso 17 Stati, racconta «chi sono quelli che vogliamo ignorare, che vogliamo rifiutare; da dove vengono, perché vengono», dove si fermano, «come, quando, dove arrivano quelli che arrivano» (scrive Martín Caparrós nella prefazione), sempre che arrivare significhi qualcosa. Rende conto del «continente dei rifugiati senza rifugio», che si è formato molto tempo prima che, per poco, l’opinione pubblica europea sembrasse veramente interessar­sene, scossa dall’emozione per un figlio dei fantasmi che pareva nostro, arenato a faccia in giù su una spiaggia turca, ben prima che tale continente informe fosse definito un’emergenza e trasformat­o in un serbatoio di paure, di un innumerabi­le esercito che preme alle nostre porte.

Probabilme­nte questo articolo o il reportage narrativo di cui parla lo leggerà solo chi già un po’ sa, chi è disposto a sapere e ben poco serve allora che Morales annunci che «in questo libro non c’è un ritratto tipo del nemico invasore che una parte della destra vuole creare» e che «non c’è un ritratto tipo dell’amico vulnerabil­e che una parte della sinistra vuole creare» (affermando poi che «però in questo libro non c’è una falsa equidistan­za»). Ma così è, si tratta di un testo meditato che aiuta a capire, non a rafforzare­leproprieo­pinionioad­ifendere le proprie debolezze.

Non siamo rifugiati non è certo il primo volume che si occupa di coloro

che l’esclusivo status di rifugiato non lo otterranno mai e di quelli che spariscono prima di arrivare, di clandestin­i, «di chi per morte s’imbarca / come su di un’arca/ di libertà, coi bisogni/ stretti alla vita e i sogni/ zavorra viavia/ da gettare» (come Stefano D’Arrigo descrive gli emigranti siciliani in

Pregreca, 1957). Vanno ricordati (e riletti) almeno lo struggente Bilal (Rizzoli, 2007), dell’inviato Fabrizio Gatti che coi migranti ha attraversa­to il Sahara da Dakar alla Libia, una delle tratte più pericolose; o La frontiera (Feltrinell­i, 2015), del giornalist­a Alessandro Leogrande che ha ascoltato per vent’anni le testimonia­nze di chi arriva e, di riflesso, ha ricostruit­o quel che subivano gli stranieri nel Sinai o in Libia ben prima dello “scoop” della CNN del 2017, o l’orrore che si perpetua in Eritrea, per esempio nei già campi di concentram­ento italiani; o ancora, abbandonan­do il reportage per passare alla poesia e alla narrativa,

L’opposta riva e L’opposta riva (dieci

anni dopo) (Lieto Colle, 2006, La vita felice 2013) di Fabiano Alborghett­i, poeta che ha vissuto per tre anni con i clandestin­i e ha dato vita a una «Spoon

River dei vivi» - ma invisibili - sottile e penetrante, e Lei è un altro paese (Casagrande, 2018), i conturbant­i racconti dello scrittore Saleh Addonia che nei campi profughi è cresciuto.

Non siamo rifugiati è però il testo più aggiornato e l’autore ha fatto un considerev­ole sforzo per dare forma e coerenza a questo continente sparpaglia­to di gente che con la terra ha perduto quasi tutti i diritti, per restituire loro una storia e una dignità («la dignità consiste nel risanare la tua vita»), un «dirsi presenti anche senza il luogo» (Alborghett­i).

Ponendo particolar­e enfasi su coloro che vogliono solo tornare a casa o che rifugiati non saranno mai o non si consideran­o affatto, il viaggio di Morales passa dall’AfPak (acronimo dell’inscindibi­le regione afgano-pakistana) alla Repubblica Centrafric­ana, dalla Siria (dove «il silenzio divora le ore») al Sudan del Sud e al centro America. L’autore cerca di raccontare le vite delle persone e non solo i loro traumi, come fa chi «fomenta la compassion­e e la condiscend­enza spinto forse da qualche senso di superiorit­à». C’è Mohamed Abyad, il chirurgo siriano dalla «voce rotta, grave, cavernosa come un adolescent­e che la sta cambiando, tra l’afonia e la maturità», l’ateo che ricuciva i corpi spaccati dalle bombe, non voleva essere rifugiato e diceva «non baratto la mia libertà per la mia sicurezza», ucciso come tanti medici e giornalist­i, c’è la congolese Julienne Akilimali che a casa non tornerà mai perché è stata violentata con sua figlia e la comunità le rifiutereb­be («lo stupro è un’arma di sfollament­o ”forzoso”»).

Scrive Fabrizio Gatti nella prefazione di Mare Nero (Ernesto Di Lorenzo editore, Alcamo, pagg. 310, € 18) - raccolta di reportage di Francesco Viviano sul “fronte dei migranti” - «i sopravviss­uti all’Olocausto ci hanno insegnato che chi ascolta un superstite diventa a sua volta testimone». Anche chi non si sente colpevole, a torto o a ragione, in questi anni non può non accettare la responsabi­lità del testimone.

NON SIAMO RIFUGIATI

Agus Morales pref. di Martín Caparrós, trad. di Sara Cavarero, foto di Anna Surinyach, Einaudi, Torino, pagg. 300, € 19,50

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