La morte scampata e il terrore di massa
Dopo l’attentato a Lenin si intensificò la guerra civile
Il 26 agosto 1918, dopo aver presieduto a Mosca il Consiglio dei commissari del popolo per discutere sulla mobilitazione degli operai che avevano prestato servizio in artiglieria e nel genio, Lenin si accinse a preparare i discorsi che avrebbe dovuto tenere nei giorni successivi. Forse, in quegli ultimi giorni di agosto, gli accade di pensare che solo un anno prima era nascosto in Finlandia, con 200mila rubli di taglia sulla testa, braccato dal governo provvisorio per il colpo di Stato tentato dai bolscevichi nel luglio 1917. Era fuggito travestito, dopo essersi tagliato barba e baffi, sicuro che l’avrebbero fucilato se l’avessero preso. Persino alcuni dei suoi compagni l’avevano accusato di codardia per la fuga. Ma ora, un anno dopo, per sua volontà aiutata dalla fortuna, era diventato il capo e l’artefice del primo regime socialista della storia, che pensava di dare inizio a una rivoluzione proletaria mondiale, mentre in Europa proseguiva la guerra mondiale, e in Russia imperversava la guerra civile contro i nemici del potere bolscevico.
Fin dall’inizio del conflitto europeo, disse Lenin il 23 agosto a Mosca, aveva dichiarato che «l’unico modo di uscirne consiste nella trasformazione della guerra imperialistica in guerra civile». Dopo la conquista bolscevica del potere, proseguì, la guerra civile era necessaria per annientare la borghesia, perciò doveva «continuare ancora per molti mesi e, forse, per anni; e questo deve esser chiaro ai russi, i quali sanno come sia difficile rovesciare la classe dirigente e con quanta disperazione si battono i grandi proprietari fondiari e i capitalisti russi». Il 28 agosto ribadì: «Compagni, stiamo vivendo uno dei momenti più critici, significativi e interessanti della storia, il momento in cui la rivoluzione mondiale socialista è in ascesa». La guerra mondiale aveva smascherato agli occhi dei lavoratori di tutti i Paesi la menzogna della democrazia borghese, minando definitivamente la convinzione che essa «è al servizio della maggioranza». La Russia bolscevica era «il miglior esempio sul piano dell’agitazione e della propaganda per smascherare tutta la falsità e l’ipocrisia della democrazia borghese. Noi abbiamo proclamato apertamente il dominio dei lavoratori e degli sfruttati: sta qui la nostra forza e la sorgente della nostra invincibilità».
Lenin rinnovò le accuse alla democrazia borghese il 30 agosto parlando alla fabbrica Michelson. La mattina, alle 11, aveva saputo che era stato assassinato il capo della Ceka di Pietrogrado: per rappresaglia, la Ceka fece fucilare 500 ostaggi. Lenin non ascoltò la moglie che tentò di dissuaderlo dall’uscire quel giorno per recarsi alla fabbrica. Vi citò l’esempio dell’America,«il Paese più libero e civile. In America c’è una repubblica democratica. Ebbene? In America domina impudentemente un pugno non di milionari ma di miliardari, mentre l’intero popolo è ridotto alla schiavitù e alla servitù […] là dove regnano i “democratici” c’è la rapina autentica e senza fronzoli. La conosciamo la vera natura dei democratici! ». E concluse: «Abbiamo una sola scelta: vittoria o morte!».
Alla fine del discorso ebbe un’ovazione. Lenin rispose, come suo solito, sorridendo con un gesto di saluto. All’uscita, sostò a conversare con alcune donne, quando si udirono tre colpi di pistola. Mentre la folla si disperdeva, Lenin giaceva a terra, con la camicia sparsa di sangue, ma cosciente. Volle essere condotto in macchina a casa, dove si mostrò calmo alla moglie e alla sorella, prima di essere curato. A uno dei medici, disse: «Se la fine è vicina, me lo dica chiaro e tondo, affinché non debba lasciare questioni in sospeso». Ma i due colpi che si erano conficcati nel suo corpo non erano mortali. I chirurghi decisero che fosse meglio lasciarli dove erano. Poche settimane dopo, il tenacissimo capo bolscevico era già al lavoro nel suo ufficio al Cremlino.
Chi gli aveva sparato era una giovane donna, Fanya Kaplan, socialista rivoluzionaria, che nel 1906, a sedici anni, era stata condannata ai lavori forzati a vita per aver tentato di assassinare un funzionario zarista. Fu liberata solo dopo la rivoluzione di febbraio. All’interrogatorio della Ceka, rispose di avere sparato a Lenin perché lo considerava «un traditore. Più a lungo sopravvive, più a lungo respingerà l’idea del socialismo. Per decenni». «Ero a favore dell’Assemblea costituente e lo sono ancora». Fu giustiziata il 3 settembre con un proiettile alla nuca.
Per tradimento del socialismo,l’attentatrice intendeva l’instaurazione della dittatura bolscevica, rafforzata col terrore e la soppressione di tutti i partiti, compresi i socialisti rivoluzionari, che avevano ottenuto la maggioranza nelle libere elezioni per l’Assemblea costituente, soppressa da Lenin nel giorno stesso della prima riunione, il 18 gennaio 1918. Il capo bolscevico aveva compiuto «l’assassinio premeditato della democrazia russa», come lo ha definito lo storico francese Stéphane Courtois in una recente biografia politica di Lenin.
Già militante leninista-maoista fra il 1968 e il 1971, divenuto oppositore e studioso del comunismo, nel 1997 Courtois promosse e curò il volume Il libro nero del comunismo, tradotto in 25 lingue, dove, sulla base di nuovi documenti degli archivi russi, era documentato il ruolo primogenito svolto da Lenin nella creazione del regime terroristico a partito unico, edificato in nome della dittatura del proletariato, mentre in realtà, sostiene Courtois, fin dall’inizio «si è rivelato essere niente altro che la denominazione d’origine marxista del primo regime totalitario». Il termine “totalitario” fu coniato dopo il 1922 da antifascisti italiani per definire il regime fascista, ma è storicamente appropriato applicarlo al regime leninista, come fecero già, per la prima volta, in quegli anni, gli antifascisti italiani Giovanni Amendola, Luigi Salvatorelli e Luigi Sturzo.
L’attentato diede ai bolscevichi il pretesto per intensificare la guerra civile. Il capo della Ceka proclamò il terrore di massa. Il 31 agosto furono fucilati 800 ostaggi. Nel mese di settembre, furono 1.300 i fucilati a Pietrogrado, e durante l’autunno furono almeno 15mila le persone assassinate. Negli stessi mesi, la propaganda bolscevica avviò la creazione del culto di Lenin, «il più grande capo di Stato mai conosciuto dall’umanità». Anche se Lenin era personalmente restio, da allora il culto della sua figura divenne, col partito unico e il terrore di massa, pilastro principale del regime totalitario comunista e del comunismo mondiale. Su questi pilastri, col tocco della sua personale feroce ambizione, Stalin proseguì la costruzione iniziata da Lenin. Courtois demolisce la leggenda di un Lenin costretto dalle circostanze alla dittatura del partito unico e al terrore, pur di realizzare la liberazione del proletariato mondiale. La dittatura terroristica era stato sempre l’obiettivo della politica rivoluzionaria di Lenin. Forse ignaro del fatto, che i pessimi mezzi corrompono il migliore dei fini. LÉNINE, L’INVENTEUR DU TOTALITARISME
Stéphane Courtois,
Perrin, Paris, pagg. 498, € 25