La barca va con la mente dell’equipaggio
Roberto Casati racconta il suo progetto di ricerca in fieri sulla complessità cognitiva della navigazione in mare aperto e sul disorientamento nato da un’osservazione apparentemente banale: in un sistema complesso la conoscenza non appartiene a un solo in
Siamo alla metà degli anni ’80. Poco prima di affacciarsi all’ingresso della baia di San Diego, mentre percorre un canale navigabile, la portaelicotteri statunitense Palau, 170 metri per 17000 tonnellate, perde potenza : i motori vanno in blocco, l’impianto elettrico salta, il timone non è più manovrabile, non si può fare macchina indietro. Lasciata a se stessa una nave di questa stazza che naviga a dieci nodi finisce prima o poi per fermarsi, ma ci può mettere molti minuti e diverse miglia – un intervallo lunghissimo in cui può succedere di tutto; e non c’è nulla di peggio, in mare, di una nave non manovriera, per la nave, per il suo equipaggio, e per tutti gli altri.
Scatta l’allarme, si attivano le procedure. Il capitano ordina a due robusti marinai di scendere in una cala ad azionare il gigantesco timone con le due pedaliere di emergenza; il pilota comanda una virata di cinque, poi di dieci, poi di quindici gradi, per tenersi nella parte dragata del canale; i marinai-ciclisti a fatica spostano l’angolo di qualche grado.
Una barca a vela non si accorge della difficoltà a manovrare della Palau e le traversa la rotta; i cinque fischi regolamentari di allarme o disappunto non possono venir lanciati: la sirena è azionata con il vapore delle caldaie momentaneamente fuori uso; la comunicazione per radio resta senza risposta; un marinaio scende frettolosamente a cercare il corno da nebbia, ma la Palau è ancora troppo veloce; la collisione viene evitata di un soffio. Si accende finalmente il gruppo elettrogeno; il timone è di nuovo manovrabile. Ci vorranno in tutto alla Palau venticinque minuti per rallentare fino al punto in cui è possibile gettare l’ancora; avrà percorso due miglia di pericolo assoluto e aleatorio per la vita del suo equipaggio, per quella degli equipaggi di altre imbarcazioni, e – va detto – per la carriera del suo comandante.
L’incidente viene registrato da un antropologo cognitivo, Ed Hutchins, impiegato nel settore ricerca della Marina, egli stesso navigatore, tattico su barche da regata oceanica, imbarcato sulla Palau per studiare l’apprendimento di una pratica complessa come la navigazione. Lo si legge in apertura del suo classico
Cognition in the wild, uno dei libri più citati degli ultimi vent’anni, che ha inaugurato lo studio della cognizione distribuita. Cognizione distribuita? Di che cosa si tratta?
L’osservazione dell’incidente della Palau, e lo studio del comportamento dell’equipaggio quando cerca di fare il punto, suggeriscono a Hutchins che la conoscenza della situazione di una grande nave non può risiedere nella mente di un solo individuo. Come è vero che il capitano da solo non può manovrare una portaelicotteri, la manovra è un gioco di squadra, è anche vero che il capitano da solo non sa, non conosce lo stato della sua nave: la conoscenza di questo stato è un gioco di squadra.
La tesi sembra banale, ma ha enormi implicazioni. Implicazioni per il modo in cui un sistema complesso come l’equipaggio di una nave concepisce se stesso e organizza il comportamento individuale in procedure che se pur devono essere rigide per mantenere la catena del comando e delle responsabilità, devono anche essere flessibili e aperte per far fronte agli innumerevoli e inevitabili imprevisti. Implicazioni metodologiche per la ricerca nelle scienze cognitive: il titolo del libro è un manifesto, una requisitoria per lo studio della cognizione in situazioni reali, al di fuori del laboratorio; se il laboratorio permette il controllo dei molti fattori che determinano le valutazioni e le decisioni umane, finisce anche con ridurre l’orizzonte di osservazione, e rischia di far scomparire da questo orizzonte la dimensione sociale. Implicazioni filosofiche, infine: dire che la cognizione è distribuita significa dire che le computazioni mentali non avvengono integralmente nel cervello del singolo; una parte del compito di determinare la posizione della nave è nella mia testa, un’altra nella tua testa; un’altra ancora nella carta geografica che ha “pre-computato” distanze e direzioni. Se vogliamo continuare a dire che queste attività sono mentali, non dobbiamo forse accettare il fatto che la mente sia più grande del cervello individuale? E difatti di lì a poco fiorirà la metafora della mente estesa, che se a tutt’oggi è fonte di discussioni complesse e non ha una soluzione consensuale, è anche la più grande sfida al paradigma individualista delle scienze cognitive e della filosofia della mente.
Hutchins racconta la sua ricerca come la sintesi di tre viaggi: l’uscita dal laboratorio per andare sul campo; una navigazione per mare, come osservatore imbarcato; un viaggio sociale nelle rigide gerarchie militari, dove si deve imparare a stare al proprio posto e dove è difficile rompere la barriera del silenzio e del segreto (ancor oggi nessuno conosce il vero nome della Palau, si tratta di di uno pseudonimo). All’intersezione di questi ambiti la coordinazione dell’equipaggio è un affascinante microcosmo sociale. Il mare è un universo difficile e indifferente alle ambizioni umane.
Come ha scritto Joseph Conrad, nella traduzione di Franco Marenco, «Nulla può addolcire l’acredine che cova nella sua anima. Aperto a tutti e fedele a nessuno, esso esercita il suo fascino per la rovina dei migliori. Non è bene amarlo. Egli non conosce vincolo della parola data, non partecipazione alla sventura, non lunga comunione d’intenti, non lunga devozione. La promessa che offre perpetuamente è grandissima; ma l’unico segreto per ottenerne il possesso si chiama forza, forza, - la forza gelosa, insonne dell’uomo che sta a guardia di un agognato tesoro a porte chiuse».
Per poterlo attraversare su quei gusci di noce che sono le barche e le navi, è necessario dispiegare intelligenza sottile e forza, che si cristallizzano in un insieme di vincoli ferrei. I vincoli sono il prezzo da pagare; la ricompensa è l’assoluta libertà.
L’osservazione
parte da un incidente a una portaerei degli Usa
negli anni ’80