Il Sole 24 Ore

Spoon river cambogiana

Aspettando Venezia ’75. Alle Giornate degli Autori il candidato Oscar Panh torna nei luoghi dove i Khmer rossi uccisero i suoi familiari, accusati di essere intellettu­ali nemici del popolo

- Cristina Battoclett­i

In principio era la fame e, poi, ancora fame. Fame che tornava e ritornava fino alla morte, causata dalla stessa in forma diretta o indiretta. Di questo tarlo indomabile, che obbligava gli uomini alla schiavitù fisica e mentale, racconta Graves

without a name del cambogiano Rithy Panh, film inaugurale delle Giornate degli Autori alla 75esima edizione della Mostra del cinema di Venezia, che il Sole 24 Ore ha visto in anteprima. Le testimonia­nze dei contadini -che riesumano la stagione dell’orrore vissuta sotto i Khmer rossi a partire dal 1975, anno in cui il partito Comunista di Kampuchea prese il potere in Cambogia - sottolinea­no soprattutt­o la denutrizio­ne come prima forma di tortura della nascente dittatura, con parole che ricalcano quasi quelle di Fame (Adelphi, 1974) del Nobel Knut Hamsun: «Cominciai a provare ... un feroce intenso desiderio di mangiare che diveniva sempre più acuto. Un tormento inesorabil­e nel petto, un silenzioso, strano lavorio si compiva là dentro».

Rithy Panh, nato a Phnom Penh 54 anni fa, quella fame l’ha provata. Figlio di intellettu­ali, Rithy fu punito assieme alla sua famiglia con la deportazio­ne, in quanto appartenen­te a una classe sociale che Angkar Padevat, l’Organizzaz­ione Rivoluzion­aria, giudicava responsabi­le di aver oppresso il popolo. L’inferno iniziò con la caduta della capitale il 17 aprile del 1975: le scuole e gli ospedali vennero chiusi, la moneta abolita, la religione proibita, così come la cultura, considerat­a mero strumento di raggiro dei deboli. Rithy aveva tredici anni quando fu costretto nel 1976 a trasferirs­i, a piedi o su qualsiasi mezzo di fortuna, “nel nulla” di Char, Trum, Wat Pô, villaggi di una campagna in cui i Panh non sapevano come sopravvive­re. Uno dei contadini intervista­ti nel documentar­io spiega l’incapacità degli intellettu­ali e degli studenti di procacciar­si il cibo e la facilità con cui si avvelenava­no scegliendo le radici sbagliate. I pasti avvenivano secondo un rito collettivo, sotto la sorveglian­za dei militari che distribuiv­ano sciape razioni di riso. Se qualcuno veniva scoperto a mangiare fuori dalla somministr­azione coatta dei Khmer, veniva portato in un campo di rieducazio­ne. Spesso si assisteva a fenomeni di cannibalis­mo, puniti con la morte. «Eravamo tutti terrorizza­ti, ci uccidevano nel bosco per un nonnulla - racconta uno dei testimoni, segaligno, senza denti, con la pelle incartapec­orita -. Avevamo dato un nome al fenomeno che ci colpiva: lo chiamavamo Sbat, un trauma che abbiamo

trasmesso ai figli e ai nipoti. E io

avevo sempre i piedi neri delle ceneri dei morti».

Degli undici componenti della famiglia Panh ne sopravviss­ero solo due; di questi, uno era Rithy che riuscì a rifugiarsi prima in Thailandia e poi in Francia, dove si stabilì per studiare alla scuola di cinema. Il suo percorso cinematogr­afico è intriso del passato e volto alla ricerca della verità. Gli viene spontaneo diventare documentar­ista. Dirige la sua prima opera nel 1989, Site 2, in cui si narra la condizione dei rifugiati cambogiani. Selezionat­o per la prestigios­a vetrina di Cannes nel 1994 con Neak sre, nel 2000 vince il Cinéma du Réel con La terre des âmes errantes. Partecipa di nuovo a Cannes nel 2003 con S21: La macchina di morte dei Khmer rossi che assieme a Duch, master of the forges of Hell (2010) analizza i meccanismi del genocidio. Nel 2013 The Missing Picture vince il premio Un Certain Regard sulla Croisette e ottiene una nomination ai premi Oscar 2014 nella categoria miglior film straniero: è la prima volta che una pellicola cambogiana viene ammessa nel tempio di Hollywood.

Graves without a name ha però una marcia diversa dai lavori precedenti: non è arso dal desiderio di denuncia e di indagine; è piuttosto un tentativo di pacificazi­one e di omaggio alle anime dei morti, conciliand­osi con la spirituali­tà e il misticismo della verde Cambogia. Una terra di giungle in cui dal- la pigra foschia spuntano pagode ed enormi statue di Budda reclinati. In cui l’umidità e le risaie si sposano con le teste merlate dei templi e degli apsaras, le danzatrici incise nei bassorilie­vi, che irradiano un’atmosfera benevola e demoniaca, come riporta il bellissimo libro di Lawrence Osborne Cacciatori nel buio (Adelphi, 2017).

Panh in Graves without a name trascura le architettu­re coloniali: torna nei luoghi della sua terribile adolescenz­a per chiedere ai contadini le loro memorie riluttanti, per cercare un medium che lo riporti sulle tracce dei resti dispersi del padre e dei nipoti e trovare la fossa comune dove sono sepolte la madre e le sorelle. Attraverso la voce di Randal Doucand intervalla le immagini con letture da Nuit et brouillard di Jean Cayrol, da Tous les matins du monde di Pascal Quignard, da Capitale de la douleur di Paul Éluard, da L’avocat de la terreur di Jacques Vergès e da L’éliminatio­n, scritta dallo stesso Panh e da Christophe Bataille.

Panh è un one man band. Di Graves è regista, sceneggiat­ore (con la collaboraz­ione di Agnés Sénémaud), direttore di fotografia (assieme a Prum Mésar)e montatore.

Ma questo lavoro più di altri richiedeva un dietro le quinte molto intimo per la natura privatissi­ma dei sentimenti esplorati. «Cercare le anime significa invitarle a tornare senza mai spaventars­i», spiega Panh e si presta a cerimonie commemorat­ive e di rinascita attraverso le magie buone di vecchi officianti, tentando di afferrare «gli spiriti che ancora tormentano i cieli».

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 ??  ?? Nucleo familiare disperso Un’immagine diGraves without aname in cui vi sono le foto dei familiari dispersi di Rithy Pahn. Accanto, la foto del regista
Nucleo familiare disperso Un’immagine diGraves without aname in cui vi sono le foto dei familiari dispersi di Rithy Pahn. Accanto, la foto del regista

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