Fallimenti lumaca, conta l’ammissione dei creditori
Per la Corte di cassazione non vale la data di presentazione dell’istanza
Per i creditori che lamentano la lunghezza del procedimento fallimentare la data dalla quale calcolare la ragionevole durata, ai fini dell’indennizzo previsto dalla legge Pinto, è quella dell’ammissione al passivo e non della domanda.
La Corte di cassazione, con la sentenza 21200 depositata ieri, indica una strada diversa da quella scelta dalla Corte d’Appello e anche da altri giudici di legittimità che avevano in alcuni casi (sentenze 2207/2010; 20732/2011 e 2013/2017) considerato come valida, per il conteggio degli anni, la data in cui era stata presentata l’istanza di ammissione al passivo.
In un precedente rimasto isolato (sentenza 22422/2013) la Suprema corte aveva considerato rilevante la sentenza con la quale veniva dichiarato il fallimento.
Con la decisione di ieri i giudici della seconda sezione civile, accolgono sul punto il ricorso del ministero della Giustizia.
All’origine del procedimento “lumaca”, durato 16 anni, c’era il fallimento di un importante calzaturificio. La stessa Corte territoriale aveva preso atto della complessità della procedura, che riguardava cento lavoratori dipendenti della società e altri cento pagati a cottimo per il loro lavoro a domicilio. Ad influire sulla difficoltà del caso, oltre al numero elevato di creditori, anche l’entità del passivo da accertare e le molte opposizioni. I giudici ricordano che quando il procedimento è gravoso la durata ragionevole si estende a 7 anni, rispetto ai 5 previsti per i fallimenti di media complessità. Per la Corte d’Appello il procedimento aveva “sforato” di 9 anni il margine di tolleranza.
Conclusione che aveva portato la corte di secondo grado a riconoscere 500 euro l’anno per il danno morale - in assenza di prova di un pregiudizio economico - ad ogni ricorrente, per lo stress e il patema d’animo subìto. Un disagio che, per la Corte d’Appello, non si poteva considerare attenuato dall’intervento, in favore dei creditori, del Fondo di garanzia Inps che si era insinuato al passivo.
La Cassazione cambia però la data del diritto al risarcimento.
I giudici sottolineano, infatti, che quando si tratta di creditori, il giorno da tenere presente è quello in cui è stato emesso il decreto con il quale ciascuno di essi è stato ammesso, in via tempestiva o tardiva, al passivo, mentre è irrilevante quello della domanda. Perché solo con il via libera i creditori sono riconosciuti come tali. E solo da allora subiscono gli effetti dell’irragionevole durata dell’esecuzione fallimentare. Mentre non conta la durata pregressa della procedura, alla quale sono rimasti estranei, salvo che per gli accantonamenti nei riparti parziali (articolo 113 della legge fallimentare) «i quali richiedono, tuttavia, o una misura cautelare in sede di opposizione ovvero l’accoglimento dell’opposizione con decreto non ancora definitivo».