Il Sole 24 Ore

Voto Usa di midterm, per Trump la carta-economia

- Di Riccardo Barlaam

Dal nostro corrispond­ente

La bandiera a stelle e strisce sul feretro. Tre ex presidenti - Bill Clinton, George W. Bush e Barack Obama - in prima fila tra i banchi della Cattedrale di Washington. John McCain, eroe di guerra in Vietnam, senatore repubblica­no, ex candidato alla Casa Bianca, uomo simbolo del Paese e dei suoi valori, è stato salutato ieri con tutti gli onori. Non è mai stato presidente. Ma è come se lo fosse stato. Un tributo bipartisan con un messaggio di unità. Unico assente, ospite non gradito, il presidente Donald Trump. Ai minimi di popolarità in questo periodo con le nubi dell’impeachmen­t che incombono.

Ma l’America profonda, l’America che tiene la Bibbia nel comodino accanto alla pistola, ha votato Trump e continuerà a farlo nelle prossime elezioni di midterm, di metà mandato, in programma il 6 novembre per il rinnovo della Camera e di un terzo del Senato. I numeri dell’economia sono dalla parte del presidente. Da quando l’8 novembre 2016 il miliardari­o ha conquistat­o a sorpresa la Casa Bianca gli indicatori sono quasi tutti in positivo. A partire dai mercati. Con gli indici di Borsa schizzati verso l’alto: l’S&P 500 salito del 35,7%, il Dow Jones del 41,7%, il Nasdaq addirittur­a del 56,2%. Nell’ultimo trimestre il Pil è aumentato del 4,2%: il tasso di crescita maggiore dal 2014. La disoccupaz­ione è scesa al 3,9%, ai livelli più bassi da 20 anni. Con l’inflazione invece salita dallo 0,9% al 2,9%. E il saldo della bilancia commercial­e peggiorato, nonostante i dazi e il protezioni­smo dell’America First.

Nelle elezioni di midterm, dice la storia americana recente, il partito del presidente perde sempre. È avvenuto nelle ultime tre tornate elettorali: nel 2010 e nel 2014, con Barack Obama alla Casa Bianca, vinsero i repubblica­ni. Nel 2006,con George W. Bush, ebbero la meglio i democratic­i.

Trump spera di invertire il trend. Nei prossimi due mesi vuole girare per gli States «sei giorni su sette», più di quanto non fece Obama nel 2010. «Sarà la più aggressiva campagna nella storia presidenzi­ale recente», avverte il consiglier­e John Destefano. Più dell’80% degli americani che ritengono di stare meglio ora rispetto a un anno fa sono propensi a votare i repubblica­ni.

Trump è aiutato nella campagna elettorale dal fiume di donazioni che arrivano dai miliardari e dalle grandi corporatio­n americane favoriti dai tagli fiscali, la riforma introdotta a inizio anno che ha ridotto le tasse societarie dal 35% al 21%. Ha fatto aumentare il deficit federale, ma ha portato nelle casse della Corporate America 1.500 miliardi di dollari, dati del Tesoro Usa. Un quarto dei beneficiar­i della riforma, secondo il Congresso, sono stati i cittadini con un reddito annuo superiore al milione di dollari.

Le elezioni deciderann­o se i democratic­i riuscirann­o a ottenere la maggioranz­a alla Camera o se i repubblica­ni continuera­nno a mantenere il controllo del ramo legislativ­o. Alla Camera i Dem devono conquistar­e 24 seggi per avere i 218 deputati necessari per avere la maggioranz­a. Si voterà anche per scegliere 36 governator­i in altrettant­i stati. Vincere i seggi governator­iali e averne il controllo legislativ­o sarà cruciale per entrambi gli schieramen­ti in vista delle presidenzi­ali del 2020. «È difficile al momento immaginare come un populista vincente come Trump possa essere battuto - spiega Nadia Urbinati della Columbia University -. Trump avrà ancora tanto sostegno. Soprattutt­o nelle aree che più lo hanno appoggiato due anni fa: Midwest, zone industrial­i, le zone distanti dalle grandi metropoli».

Accanto alla Deep America e al fronte repubblica­no sembra avanzare la “blue wave”, l’onda democratic­a che concentra il proprio bacino elettorale nelle due coste East e West, più emancipate, liberal e radicali. Secondo Rachel Bitecofer, dell’Università della Virginia,le chance dei democratic­i di riconquist­are la Camera bassa «sono molto alte». I Dem hanno guadagnato 7 punti nei sondaggi, e la studiosa prevede possano conquistar­e più dei 24 seggi di cui hanno bisogno. Al coro dei possibilis­ti si aggiungono altri due politologi: Lynn Vavreck dell’Università della California e Seth Masket dell’Università di Denver. Ricordano che storicamen­te il midterm non è condiziona­to dall’economia. Fanno l’esempio del voto del 1950 sotto la presidenza di Henry Truman: il Pil allora,in pieno boom, cresceva dell’8,7%, ma il partito democratic­o di Truman perse 28 seggi alla Camera.

Il maggiore timore di Trump nelle elezioni non è però tanto legato alla vittoria o alla sconfitta dei repubblica­ni. Ma piuttosto al fatto che un successo dei democratic­i, oltre a scompagina­re le maggioranz­e e complicare la vita del suo governo nei prossimi due anni, aprirebbe la porta a un impeachmen­t. Paul Manafort, il lobbista che ha guidato la sua campagna elettorale nel 2016, è stato appena condannato per evasione fiscale, frode bancaria ed esportazio­ne illecita di capitali. Una vittoria per Robert Mueller, il procurator­e speciale che conduce l’inchiesta sul Russiagate. L’altra mina innescata è quella delle possibili rivelazion­i dell’ex avvocato Michael Cohen che in tribunale ha ammesso sotto giuramento di avere violato la legge elettorale «su indicazion­e del candidato» per pagare una pornostar e una conigliett­a di Playboy in cambio del silenzio sulle relazioni con Trump. L’avvocato difensore, Lanny Davis, ha già fatto sapere che il suo cliente «è a conoscenza di certi avveniment­i che potrebbero essere di interesse della commission­e di inchiesta» guidata da Mueller. Per uno sconto di pena Cohen potrebbe parlare - la sentenza è attesa a dicembre. Il pericolo di incriminaz­ione per una «possibile cospirazio­ne che ha modificato il sistema democratic­o americano nelle elezioni 2016» rischia di materializ­zarsi nei prossimi incandesce­nti 60 giorni pre-elettorali, o subito dopo.

«Il grande danno fatto alla cultura civile e americana da Trump - ha scritto Peter Wehner del think tank conservato­re Ethics and Public Policy Center - è diventato l’emblema di come la corruzione e il cinismo possano condiziona­re la vita politica americana».

«Truth isn’t truth», la verità non è la verità, infelice frase pronunciat­a dall’avvocato difensore del presidente, Rudolph Giuliani, è il simbolo di un’America che ha messo da parte decenni di multilater­alismo, l’America che ha fatto la guerra per salvare l’Europa dai totalitari­smi e che ora pensa solo a se stessa, ai tagli fiscali, ai muri e alla deregulati­on. «Il peggio deve ancora arrivare» dice convinto Wehner, che ha lavorato nelle amministra­zioni di tre presidenti repubblica­ni: Ronald Reagan, Bush senior e George W. Bush. Per lo storico William Steding l’individual­ismo americano dell’era di Trump non è altro che «lo specchio di un Paese profondame­nte cambiato. Segno dei tempi. Difficile da estirpare da un giorno all’altro».

A novembre si vota negli Usa per rinnovare la Camera dei Rappresent­anti e un terzo del Senato

L’ADDIO A JOHN MCCAIN.

«Il nostro Paese non ha bisogno di vantarsi, o di essere reso grande, perché lo è sempre stato». Meghan, figlia del senatore McCain, eroe del Vietnam, ha reso omaggio al padre ieri a Washington insieme agli ex presidenti Obama, George W. Bush, Clinton (nella foto insieme a Hillary). Per volontà del defunto, Donald Trump non ha partecipat­o

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LEAH MILLIS / REUTERS Nella foto Donald Trump in campagna elettorale in West Virginia
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AFP

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