Sopravviverà solo il «selfie letterario»?
Richard Flanagan. Scrivere la biografia di un altro raccontando se stessi
Si può scrivere la biografia di un altro e contemporaneamente raccontare se stessi? A testimoniare questo paradosso ci induce la lettura di Prima persona di Richard Flanagan, facendoci scivolare insieme al suo protagonista in un affascinante e pericoloso gioco di specchi.
Ispirata da un’esperienza dell’autore, la storia si svolge in Australia nei primi anni ’90, quando Kif Kehlman, scrittore in erba, ottiene da una prestigiosa casa editrice l’incarico di aiutare Siegfried Heidl nella stesura della sua autobiografia. Si tratta di un progetto tanto ambizioso quanto strampalato: lavorare per sei settimane a stretto contatto con uno dei più famosi truffatori del Paese, nella speranza di confezionare un bestseller prima del processo. Kif fatica per sbarcare il lunario, vive a Hobart in Tasmania, lontano dall’ambiente letterario di Melbourne, con la moglie, una figlia e due gemelli in arrivo. A qualificarlo per l’impresa non è il suo curriculum, né uno scaltro agente letterario, ma la più improbabile delle coincidenze: il suo sodale compagno di sventure, Ray, è finito a lavorare per Heidl e al momento giusto ha fatto il suo nome.
L’ingresso di Kif nella sede della TransPacific Publishing mette in luce tutto il suo provinciale idealismo, nutrito dal gusto per la bella pagina, da modelli letterari inarrivabili (Joyce, Kafka, Borges sono tra i suoi riferimenti principali) e soprattutto dalla fiducia che fare il ghost-writer possa servirgli a impadronirsi del mestiere. Flanagan racconta con esasperante realismo i dissidi di un giovane artista, facendoci sentire l’orrore per la pagina bianca, la paura di fallire, l’ansia di non fare in tempo o di sprecarlo. Parallelamente, muovendosi su un altro registro, l’autore descrive un’editoria in profondo cambiamento: sempre più asservita alle leggi del mercato, con quello americano in testa, l’ossessione dei numeri e dei profitti. A dirigerla ci sono persone scialbe come Gene Paley, che si esprime con mugolii invece che a parole, e difende aprioristicamente il valore della semplicità.
Kif, al contrario, sogna la grande prosa, senza l’obbligo di rispettare «un inizio preciso o una fine», ma si accorge che nella casa editrice tutti danno un credito spropositato alle banalità di Jez Dempster, autore che vende milioni di copie: «inizia dall’inizio e finisci con la fine». Attenersi al corso degli eventi si dimostra, però, una scelta impraticabile a causa delle continue menzogne, vaghezze e omissioni con cui Heidl si sottrae a ogni domanda cruciale. Chi è veramente quest’uomo? Come ha fatto a frodare le banche per settecento milioni di dollari? Qual è la vera entità dei suoi crimini? È davvero responsabile della morte del suo socio? È un agente della Cia? La ricerca della verità sembra perdere importanza dinnanzi alla necessità di chiudere il libro. E intanto tra il truffatore incallito e il biografo ostinato si stabilisce una strana dipendenza, fatta di complicità e sottile perfidia. La tensione sale con la stessa tragicomica forza che troviamo, per esempio, nel Carteggio Aspern di Henry James, dove ogni passo avanti verso la conquista dell’oggetto desiderato si rivela ripetitivo e frustrante.
Kif ripiomba nella stessa disperata solitudine che lo aveva paralizzato davanti alle pagine del suo romanzo incompiuto. Ma la vicinanza a un personaggio tanto bugiardo e inesplicabile non è priva di conseguenze. Più Heidl si nega, più Kif deve uscire allo scoperto, entrare nella parte, confondere verità e finzione: «Per raccontare la storia di Heidl avrei dovuto vedermela con me stesso. […] Essere lui in prima persona». Il ritmo di lavoro diventa sempre più frenetico, costringendolo a dilapidare tutto ciò che gli capita sottomano: «abbozzi grossolani di scene, brani del memoir di Heidl, appunti innestati su altri appunti, sinossi di raccordi ancora da scrivere e idee prese dal mio romanzo». Mentre la stesura della biografia assume connotati sempre più romanzeschi, Kif si accorge che non è solo la vanità a corrompere lentamente la sua vita, ma la terrificante scoperta di assomigliare all’uomo che tanto disprezza. Avvolto nel suo mistero, Heidl si rivela una persona ordinaria e un affabulatore di talento, pronto a insinuare nell’orecchio del suo biografo l’idea che scrivere sia un’attività altrettanto disonesta, solo meno divertente e redditizia.
Kif si rende conto troppo tardi di esser caduto nella grande trappola dell’autobiografia. Comporre quella di Heidl significava difendersi, credersi uno scrittore all’altezza del compito. Scrivere la propria, ora che ha ottenuto successo e fama come produttore televisivo, significa, invece, riconoscere il fallimento, mostrare le aporie, recuperare brandelli della propria identità nelle parole prestate agli altri.
Flanagan riesce nel paradosso di offrirci un unico testo in cui, però, la voce del protagonista e lo stile dell’autore si sdoppiano: da un lato c’è infatti il bisticcio continuo tra Kif e Heidl, fatto di dialoghi incalzanti e evasivi, dall'altro il ritmo disteso di Kif che tutto registra, sforzandosi di guardare anche fuori. Seguendo questa seconda pista, la prospettiva del romanzo si allarga, e dall'editoria australiana degli anni '90 finisce per fotografare la società mediatica dei nostri giorni, in cui anche le manipolazioni di Heidl appaiono antiquate. Il confine tra verità e finzione è di nuovo confuso, superato oramai dall’impostura del reality o da ciò che il protagonista ironicamente definisce “selfie letterari”, ultima tendenza editoriale, unico genere in cui può forse sopravvivere la scrittura.