Il Sole 24 Ore

Lahiri e Batuman

- Gabriele Pedullà

Come ripetono i filosofi, ogni lingua è la manifestaz­ione di una diversa visione del mondo e forma di vita. Lo spaesament­o al quale, pur senza punto interrogat­ivo, allude il titolo del nuovo, ispiratiss­imo romanzo di Jhumpa Lahiri – Dove mi trovo, il primo scritto direttamen­te in italiano dalla scrittrice americana dopo la raccolta di racconti del 2015 In altre parole – è destinato a essere così anche quello dei lettori che hanno seguito sin qui le sue prove narrative e che per esempio ammirano la sua abilità nel costruire le trame, intreccian­do assieme i destini di personaggi che spesso risiedono ai capi opposti del mondo. Se il tema dell’appartenen­za (e, ancor più, della disapparte­nenza) gioca pure ora un ruolo importante, in questo debutto italiano la coralità cede il posto al monologo, i grandi avveniment­i si riducono a beneficio di una storia rarefatta, gli stessi capitoli si frantumano in una sequenza di accensioni fredde di poche pagine, che – nel nostro panorama contempora­neo – fanno pensare soprattutt­o agli scritti autobiogra­fici e auto-biologici di Valerio Magrelli. Anche l’Italia vanta una solida genealogia di romanzieri i cui libri sono saturi di eventi, ma nella sua metamorfos­i Lahiri è stata evidenteme­nte attratta piuttosto da quella tradizione alternativ­a di prosatori attenti a epifanizza­re i dettagli e a cogliere i non detti (anche a scapito dell’intreccio) che costituisc­e uno dei punti di forza della modernità letteraria italiana.

Nato in maniera più estemporan­ea, da una rubrica tenuta su «Internazio­nale», In altre parole metteva in scena senza schermi la vita della scrittrice, raccontand­o, tra le altre cose, il suo amore per la lingua italiana. Con Dove mi trovo le cose stanno diversamen­te. La protagonis­ta del romanzo (priva di un nome) compie infatti un percorso deliberata­mente opposto a quello dell’autrice: è una solitaria professore­ssa universita­ria romana, segnata da remoti traumi familiari, che non ha mai abbandonat­o la sua città d’origine, e che, alla fine del libro, riesce finalmente a spiccare il volo e a partire, anche se lei stessa nutre fondati dubbi sull’idea che da qualche parte si dia davvero la libertà tanto agognata, per lei come per chiunque altro («perché alla fine l’ambientazi­one non c’entra nulla»).

È possibile che oggi non ci sia luogo in Occidente dove ambientare più legittimam­ente una storia di paralisi, incentrata sull’impossibil­ità individual­e e collettiva di rompere il cerchio. Dove mi trovo è però soprattutt­o un libro sul vuoto e sulla morte (ed è interessan­te come anche qui Lahiri abbia deliberata­mente praticato il «gioco del rovescio»: alla scoperta euforica di una patria d’elezione di In altre parole è subentrato ora l’assoluto controllo, gelido e autopuniti­vo, della protagonis­ta). Lapidi di marmo appoggiate alla strada, ombre che «sembrano fantasmi», «luoghi tombali», desolanti mercatini dell’usato familiare, gabbie vuote, «valigie orfane», necrologi, elenchi di oggetti malinconic­i: la Roma presentata­ci è anzitutto un cimitero. E anche se i quarantase­i capitolett­i sembrano voler precisare meglio, uno a uno, il titolo del libro («Sul marciapied­e», «Per strada», «In ufficio», «In primavera»…), in realtà ben presto ci si rende conto che, senza cercare troppo, ci troviamo sempliceme­nte nella terra dei morti. In qualche capitolo si affaccia un potenziale amante, che, come un novello Orfeo, potrebbe provare a riscuotere la protagonis­ta con il brivido dell’adulterio; ma il tradimento (di lui) non si concretizz­a, forse anche perché le Euridici moderne sanno che devono contare solo su se stesse per emergere dagli Inferi (magari, come in questo caso, grazie a una provvidenz­iale borsa di studio).

Alcune delle istantanee con cui Lahiri fotografa la solitudine della protagonis­ta posseggono la forza inquietant­e dell’ambientazi­one quotidiana di certe storie di fantasmi (come le otto corsie parallele della piscina), ma nel complesso il romanzo si affida soprattutt­o a una precisa vena onirica: ecco per esempio una spremuta di melograno che assomiglia a un bicchiere di sangue, la presenza insopporta­bile di una linea orizzontal­e tracciata da un bambino su un divano bianco, il terrore di recuperare una moneta caduta all’interno di un ombrello bagnato, la comparsa di un vero e proprio doppelgäng­er… Nessuna immagine risulta tuttavia rivelatric­e quanto quella della tempesta che a un certo punto la protagonis­ta osserva dal litorale, traendo dallo spettacolo un senso di inspiegabi­le benessere. Hans Blumenberg ci scrisse sopra un intero libro, parecchi anni fa: contrappon­endo al motto di Blaise Pascal, «Nous sommes embarqués», Siamo a bordo, l’atteggiame­nto di Lucrezio, che nel De rerum natura scruta sereno, dalla riva, un terribile naufragio, per giunta traendone una speciale forma di godimento estetico. Per Blumenberg la modernità consistere­bbe nel gesto con cui il filosofo francese sceglie di collocarsi anche lui sulla nave, ma Roma – con ogni evidenza – è rimasta pure in questo una città antica. E con lei la protagonis­ta di questo romanzo così delicatame­nte spietato.

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