Lahiri e Batuman
Come ripetono i filosofi, ogni lingua è la manifestazione di una diversa visione del mondo e forma di vita. Lo spaesamento al quale, pur senza punto interrogativo, allude il titolo del nuovo, ispiratissimo romanzo di Jhumpa Lahiri – Dove mi trovo, il primo scritto direttamente in italiano dalla scrittrice americana dopo la raccolta di racconti del 2015 In altre parole – è destinato a essere così anche quello dei lettori che hanno seguito sin qui le sue prove narrative e che per esempio ammirano la sua abilità nel costruire le trame, intrecciando assieme i destini di personaggi che spesso risiedono ai capi opposti del mondo. Se il tema dell’appartenenza (e, ancor più, della disappartenenza) gioca pure ora un ruolo importante, in questo debutto italiano la coralità cede il posto al monologo, i grandi avvenimenti si riducono a beneficio di una storia rarefatta, gli stessi capitoli si frantumano in una sequenza di accensioni fredde di poche pagine, che – nel nostro panorama contemporaneo – fanno pensare soprattutto agli scritti autobiografici e auto-biologici di Valerio Magrelli. Anche l’Italia vanta una solida genealogia di romanzieri i cui libri sono saturi di eventi, ma nella sua metamorfosi Lahiri è stata evidentemente attratta piuttosto da quella tradizione alternativa di prosatori attenti a epifanizzare i dettagli e a cogliere i non detti (anche a scapito dell’intreccio) che costituisce uno dei punti di forza della modernità letteraria italiana.
Nato in maniera più estemporanea, da una rubrica tenuta su «Internazionale», In altre parole metteva in scena senza schermi la vita della scrittrice, raccontando, tra le altre cose, il suo amore per la lingua italiana. Con Dove mi trovo le cose stanno diversamente. La protagonista del romanzo (priva di un nome) compie infatti un percorso deliberatamente opposto a quello dell’autrice: è una solitaria professoressa universitaria romana, segnata da remoti traumi familiari, che non ha mai abbandonato la sua città d’origine, e che, alla fine del libro, riesce finalmente a spiccare il volo e a partire, anche se lei stessa nutre fondati dubbi sull’idea che da qualche parte si dia davvero la libertà tanto agognata, per lei come per chiunque altro («perché alla fine l’ambientazione non c’entra nulla»).
È possibile che oggi non ci sia luogo in Occidente dove ambientare più legittimamente una storia di paralisi, incentrata sull’impossibilità individuale e collettiva di rompere il cerchio. Dove mi trovo è però soprattutto un libro sul vuoto e sulla morte (ed è interessante come anche qui Lahiri abbia deliberatamente praticato il «gioco del rovescio»: alla scoperta euforica di una patria d’elezione di In altre parole è subentrato ora l’assoluto controllo, gelido e autopunitivo, della protagonista). Lapidi di marmo appoggiate alla strada, ombre che «sembrano fantasmi», «luoghi tombali», desolanti mercatini dell’usato familiare, gabbie vuote, «valigie orfane», necrologi, elenchi di oggetti malinconici: la Roma presentataci è anzitutto un cimitero. E anche se i quarantasei capitoletti sembrano voler precisare meglio, uno a uno, il titolo del libro («Sul marciapiede», «Per strada», «In ufficio», «In primavera»…), in realtà ben presto ci si rende conto che, senza cercare troppo, ci troviamo semplicemente nella terra dei morti. In qualche capitolo si affaccia un potenziale amante, che, come un novello Orfeo, potrebbe provare a riscuotere la protagonista con il brivido dell’adulterio; ma il tradimento (di lui) non si concretizza, forse anche perché le Euridici moderne sanno che devono contare solo su se stesse per emergere dagli Inferi (magari, come in questo caso, grazie a una provvidenziale borsa di studio).
Alcune delle istantanee con cui Lahiri fotografa la solitudine della protagonista posseggono la forza inquietante dell’ambientazione quotidiana di certe storie di fantasmi (come le otto corsie parallele della piscina), ma nel complesso il romanzo si affida soprattutto a una precisa vena onirica: ecco per esempio una spremuta di melograno che assomiglia a un bicchiere di sangue, la presenza insopportabile di una linea orizzontale tracciata da un bambino su un divano bianco, il terrore di recuperare una moneta caduta all’interno di un ombrello bagnato, la comparsa di un vero e proprio doppelgänger… Nessuna immagine risulta tuttavia rivelatrice quanto quella della tempesta che a un certo punto la protagonista osserva dal litorale, traendo dallo spettacolo un senso di inspiegabile benessere. Hans Blumenberg ci scrisse sopra un intero libro, parecchi anni fa: contrapponendo al motto di Blaise Pascal, «Nous sommes embarqués», Siamo a bordo, l’atteggiamento di Lucrezio, che nel De rerum natura scruta sereno, dalla riva, un terribile naufragio, per giunta traendone una speciale forma di godimento estetico. Per Blumenberg la modernità consisterebbe nel gesto con cui il filosofo francese sceglie di collocarsi anche lui sulla nave, ma Roma – con ogni evidenza – è rimasta pure in questo una città antica. E con lei la protagonista di questo romanzo così delicatamente spietato.