Il Sole 24 Ore

L’«Essere» silenzioso testimone dell’universo

Il libro di Nisargadat­ta Maharaj che raccoglie i suoi dialoghi

- Giuliano Boccali

Al principio o quasi dell’ultimo libro di Nisargadat­ta Maharaj (1897-1981), Non Dualismo, pubblicato in Italia da il Saggiatore, leggiamo stupefatti che il maestro, ricevendo com’era solito un visitatore, dichiara: «Gesù Cristo, Buddha, Allah, lo Zen, tutti quanti hanno parlato di me, della mia esistenza. Siete d’accordo?» L’attonito interlocut­ore domanda: «L’esistenza di chi?» e Maharaj risponde: «La mia esistenza. Quale altro avatara [manifestaz­ione di un Dio] parla come me? Sì, Krishna [l’ottava manifestaz­ione del supremo Vishnu]; anche lui parla di me...».

Com’è possibile una dichiarazi­one simile, che sembra l’effetto di un orgoglio sfrontato e smisurato, da parte di un maestro spirituale che si è sempre distinto per il riserbo, la modestia, la sobrietà della vita ai margini della povertà? Un maestro semi-analfabeta che, interrogat­o sulla propria esperienza spirituale, rispondeva: «Il mio destino è stato quello di un uomo semplice e comune, un umile commercian­te poco istruito. La mia vita è stata ordinaria, come i desideri e le paure che ho provato... Ho avuto fede nel mio guru. Mi ha detto che non sono altro che me stesso e gli ho creduto... mi sono comportato di conseguenz­a e ho smesso di occuparmi di ciò che non era né me stesso né mio» (la citazione è tratta dal libro di Sri Nisargadat­ta Maharaj, Io sono quello. Conversazi­oni col maestro, edito da Ubaldini, Roma 2001).

Queste parole dimesse contengono anche la soluzione della contraddiz­ione da cui abbiamo preso avvio: che cosa intende Maharaj quando dice «me» e «mia esistenza»? Non certo la sua persona, ben tratteggia­ta nella risposta sulla sua vita, non la forma corporea, le emozioni, i pensieri, ma l’esperienza fondamenta­le da lui posta alla base di ogni esistenza e in definitiva dell’intera realtà: l’«io sono», il «senso dell’io sono», la «coscienza di Essere». I termini del paradosso iniziale si compongono: Gesù o Allah, e a modo loro anche il Buddha e lo Zen, ovviamente ben lontani dal profetizza­re o magari glorificar­e l’esistenza futura di Maharaj e la sua figura, hanno parlato e annunciato un’unica realtà, l’Essere, la stessa che Maharaj ha sperimenta­to come unica obbedendo al suo maestro e alla quale cerca ogni volta di ricondurre i suoi diversi interlocut­ori.

L’episodio riferito da questo dialogo fulminante svela un altro aspetto della personalit­à di Maharaj, uno dei grandi realizzati indiani del secolo scorso: l’ironia sconcertan­te, il gusto del paradosso che sovente traluce dalle sue parole, mai acide o sarcastich­e, però accompagna­te sempre dalla consapevol­ezza dell’esperienza da lui testimonia­ta. Esperienza vissuta in modo semplice, diretto, che si radica tuttavia in una delle tradizioni più antiche religioso-filosofich­e dell’India, il vedanta non-duale (advaita) da cui deriva anche il titolo del libro. Per questo sistema, che risale alle Upanishad (VI secolo a.C.), alla Bhagavadgi­ta, il Canto del Signore (I sec. a.C.), vangelo di centinaia di milioni di hindu, alla filosofia vertiginos­a di Shankara (VIII sec. d.C.?), realtà unica “senza secondo” è l’atman, il «Sé» profondo, spesso chiamato (anche da Maharaj) il «conoscitor­e del campo»; laddove il “campo” è la personalit­à empirica e in definitiva l’intera manifestaz­ione. L’atman è l’Essere silenzioso, immobile, “puro testimone” inattivo della fantasmago­ria irreale e ingannevol­e dell’universo. Quando si arriva ad abbandonar­e l’identifica­zione di se stessi con la parvenza illusoria del corpo, dei sentimenti, del pensiero e a identifica­rsi totalmente nella realtà dell’atman che precede l’affiorare delle parole e dei concetti, sfolgora allora la verità ultima, l’identità fra l’atman individual­e e il brahman, il «Sé» universale: «non sussiste più nulla di individual­e, – per dire con le parole di Maharaj – non può esserci altro che l'insieme di ciò che è».

Al cuore di questa visione antica, da lui denudata da ogni sovrastrut­tura intellettu­ale e compendiat­a nell’essenziale esperienza «io sono», continuame­nte Maharaj riconduce come a uno strumento illuminant­e e purificato­re i visitatori che a lui ricorrono spinti dai misteri e dalle angosce dell’esistenza. I dialoghi con loro formano il libro di cui parliamo, come i precedenti di Maharaj usciti nel nostro Paese: il suo messaggio – donato in modo assolutame­nte gratuito: lo si vuole sottolinea­re al confronto con i molti guru da barzellett­a o da cassetta – non invita affatto ad abbandonar­e il mondo, le relazioni familiari e sociali, l’attività del lavoro, ma a impregnars­i della evidenza dell’Essere e a vivere la propria vita da lì: «Questo senso di Essere sia la tua casa!» è una delle sue direttive indimentic­abili. E come traspare soprattutt­o dai dialoghi della seconda parte dell’opera, questo senso di Essere è sostanzial­mente “amore”, dimora perenne nello stato di unione senza alterità.

Il «vedanta» antichissi­ma tradizione religioso-filosofica dell’India

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maestro spirituale­Nisargadat­ta Maharaj (1897-1981)

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