Il Sole 24 Ore

Una romantica avventura preistoric­a

Dal Dna di un dito la prova che tra neandertal­iani e denisovani c’è stato più di un flirt

- Guido Barbujani

Strano destino quello dell’uomo di Denisova, l’ultimo arrivato nel genere Homo. Sappiamo parecchio di lui, e, da giovedì scorso, ancora di più; ma non abbiamo idea di come fosse fatto. Otto anni fa, nella caverna di Denisova, in Siberia, spunta la falangetta di un dito mignolo, conservata molto bene nonostante l’età venerabile. Da quella falangetta, il gruppo di Svante Pääbo, il biologo svedese a cui dobbiamo alcune delle scoperte più sorprenden­ti sull’evoluzione dell’uomo, riesce a ottenere dell’ottimo DNA. Da quel DNA si capisce che quell’ossicino è appartenut­o a qualcuno, anzi, a qualcuna, che non era né sapiens come noi, né Neandertal. L’uomo di Denisova è la prima specie al mondo definita non in base alla sua anatomia (che non conosciamo) ma al suo DNA.

Giovedì scorso Pääbo e i suoi hanno aggiunto un altro, affascinan­te dettaglio alla storia di Denisova. Il DNA provenient­e da un fram

mento d’osso appartenut­o a una si

gnora o signorina morta 90mila anni fa e ribattezza­ta Denny (in alternativ­a al burocratic­o nome ufficiale, Denisova 11) dimostra che fra neandertal­iani e denisovani c’è stato più di un flirt. Denny infatti aveva un papà neandertal­iano e una mamma denisovana. «Grande scienza accompagna­ta da un po’ di fortuna», ha commentato un altro bravo genetista, Pontus Skoglund.

Fortuna, sì, perché nessuno aveva mai trovato le tracce fresche di un evento del genere, un’ibridazion­e fra specie umane diverse. Dunque Neandertal e Denisova non solo frequentav­ano le stesse caverne, ma almeno in un caso si sono piaciuti così tanto da fare una figlia insieme. Siccome di Denisova si conoscono quattro o cinque individui in tutto, il fatto che uno, Denny, sia un ibrido fa pensare che amori del genere non fossero poi così rari. Ma se Neandertal e Denisova erano due specie diverse, dirà qualcuno, come potevano far figli insieme? Qui il discorso si fa complesso. Ma proviamoci.

Nel Settecento, quando il grande naturalist­a svedese Linneo comincia la sua formidabil­e opera di classifica­zione di tutti i viventi, le cose erano semplici. Si pensava che Dio avesse creato tutte le specie, e ai naturalist­i toccasse solo applicare a ogni individuo l’etichetta giusta. Le cose si complicano con Lamarck e Darwin che, in questo concordi, capiscono che specie diverse hanno origine da antenati comuni. Oggi ci sono cavalli e asini, o uomini e scimpanzé; ma discendono da un gruppo di organismi che è l’antenato comune di tutti e due, cavalli e asini, oppure scimpanzé e noi. Se in un certo momento c’è una sola specie, ma qualche milione di anni dopo ce ne sono due, le specie sono entità transitori­e, che si formano un po’ alla volta. E nel frattempo possono succedere tante cose: per esempio che, anche quando i due gruppi hanno già aspetto distinto (o, nel caso dei denisovani e neandertal­iani, DNA ben diversi) scocchi la fatale scintilla.

Nel caso del cavallo e dell’asino sappiamo come va a finire: nasce un mulo, che è sterile, e finisce lì. Forse era lo stesso per denisovani e neandertal­iani: forse Denny non poteva avere figli. Oppure li ha avuti, chissà. E non sappiamo bene come sia andata fra noi e Neandertal: qualche matrimonio c’è stato, e un reperto fossile, a Oase in Romania, lo dimostra. Ma quanto dell’eredità genetica di Neandertal sia rimasto in noi, questo dobbiamo ancora capirlo. Insomma, abbiamo bisogno di nomi per chiamare le cose, e il concetto di specie ci offre etichette utili. Ma le specie sono entità più sfuggenti di quanto non sembri, ed è decisament­e meglio non fissarsi troppo sulle etichette quando si studia l’evoluzione. Intanto, godiamoci questa romantica storia preistoric­a, in cui due esseri umani non hanno permesso che pregiudizi xenofobi ostacolass­ero la loro passione.

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