I veneziani ospiti del cardinal Fesch
In mostra i grandi protagonisti della pittura del Seicento in Laguna
Mentre suo nipote conquista l’Europa a cavallo e nel 1804 si nomina imperatore dei Francesi, Joseph Fesch fa carriera all’ombra dei campanili e nel 1803 viene consacrato cardinale e nominato ambasciatore di Francia presso la Santa Sede. Hanno sei anni di differenza e lo stesso piglio autoritario, ma esercitano il potere in modo diametralmente opposto: Napoleone Bonaparte brandendo la sciabola e facendo la guerra, il cardinal Fesch predicando la pace e collezionando opere d’arte. In tutta la sua vita (1763 - 1839) ne raccolse 17.767 di cui 16mila erano dipinti e una decima parte di questi forma oggi il nucleo originario della collezione del Museo Fesch di Ajaccio. Sono soprattutto capolavori di maestri del Seicento romano e napoletano, ma anche olandese, fiammingo e francese, oltre a mobili, oreficerie e arredi liturgici.
Il Museo Fesch, aperto nel 1850, si è arricchito nel tempo attraverso importanti donazioni: Félix Baciocchi (1866), il Duca di Treviso (1892), Girolamo Napoleone (1897), la famiglia Rothschild (1889, 1909), i baroni Vognsgaard (1974, 1992) e François e Marie-Jeanne Ollandini (2007, 2009), grazie alle quali oggi può vantare la più grande raccolta di Francia di dipinti italiani, dopo quella del Louvre di Parigi.
Sotto la direzione di Philippe Costamagna, il palazzo del Museo Fesch è stato ristrutturato e riaperto al pubblico nell’estate del 2010. Il nuovo allestimento ripropone, al primo piano, la classica quadreria barocca - con i dipinti appesi alle pareti “cornice contro cornice”, indipendentemente dal soggetto o dall’epoca - che caratterizzò anche la Grande Sala di Palazzo Falconieri, in via Giulia a Roma, dove il cardinale Fesch custodiva i suoi “amori”, da Bernardo Daddi a Van Dyck e Canova.
Per sé, invece, si riservò un piccolo appartamento al terzo piano dell’edificio (dove morì), mentre aveva accatastato il resto della collezione in piazza Venezia a Roma, nel Palazzo di Madame Mère (Letizia Ramolino, mamma di Napoleone e sorellastra del cardinale). Finché fu in vita Joseph Fesch si interessò d’arte, ma fu anche un generoso benefattore di orfani, figli illegittimi e ragazze senza dote alle quali era solito donare l’abito da sposa.
L’occasione per ricordare questo grande còrso che, divenuto ricco e potente grazie alla Campagna d’Italia del nipote (1796), si schierò poi con il Papa Pio VII sopravvivendo al crollo del bonapartismo(1814),èunabellissimamostra dedicata alla pittura fiorita a Venezia tra il 1630 e il 1670 e in corso al Museo Fesch di Ajaccio fino al primo ottobre.
Curata da Linda Borean e Stefania Mason (docenti di storia dell’arte all’Università di Udine) e da Andrea Bacchi (direttore della Fondazione Zeri di Bologna), Rencontres à Venise : Étrangers et Vénitiens dans l’art du XVIIe siècle presenta, in collaborazione con le Gallerie dell’Accademia di Venezia, un centinaio di dipinti provenienti dai musei di Francia e permette al grande pubblico di scoprire una stagione della pittura veneziana tanto sorprendente quanto negletta, cioè quella espressa intorno alla metà del Seicento da formidabili maestri locali e foresti, tuttavia schiacciati tra il genio del primo Rinascimento (di Bellini, Giorgione, Tiziano) e la gloria dell’ultimo Settecento (di Canaletto, Guardi, Bellotto) e perciò quasi oscu- rati agli occhi dei posteri.
Il Seicento veneziano, infatti, è un secolo ancora da definire e da rivalutare; dopo la prima grande rassegna che si tenne a Venezia nel 1959 e dopo una serie di ricerche monografiche pubblicate da Rodolfo Pallucchini nel 1981, il Barocco della Serenissima viene ora indagato con un taglio critico illuminante che, in sette sezioni, ne esalta il ruolo di crocevia internazionale e di vivace ponte tra pittori veneziani e artisti stranieri di passaggio in Laguna. L’ambiente artistico a Venezia dopo il 1630 - dominato da Pietro Liberi, Girolamo Forabosco, Tiberio Tiballi, Giulio Carpioni - non è molto felice, soprattutto se messo a confronto con le innovazioni introdotte negli stessi anni a Genova, Roma, Firenze e Bologna. Si fa riferimento a Tintoretto, si tenta di recuperare qualcosa di Tiziano, in un contesto di tardo manierismo che già aveva perduto i suoi esponenti più significativi come Palma il Giovane e il Padovanino. Dopo la terribile epidemia di peste che causò 150mila morti in pochi mesi, a Venezia trovano ospitalità artisti che avevano già avuto fortuna altrove: Domenico Fetti a Mantova, Carlo Saraceni e Nicolas Régnier a Roma, Bernardo Strozzi a Genova, Sebastiano Mazzoni a Firenze e il tedesco Johann Liss. Sono autori che introducono un linguaggio frizzante e libero, tipicamente barocco e che non sono in concorrenza con un altro gruppo di pittori veneti, fedeli interpreti del caravaggismo. Nelle tele di questi ultimi, la composizione è articolata, la narrazione è drammatica, i contrasti tra luce e ombra sono violenti e si prediligono i soggetti biblici più cruenti e quelli mitologici più cupi e melodrammatici. Sono i cosiddetti “tenebrosi”, ai quali la mostra di Ajaccio dà grande risalto: il genovese Giovan Battista Langetti, il veneziano Pietro Negri, il bavarese Johann Carl Loth e altri maestri come il veronese Marcantonio Bassetti, il vicentino Pietro della Vecchia e il padovano Luca Ferrari, sono pittori di eroine coraggiose e guerriere. Le loro opere, destinate a una committenza desiderosa di lasciarsi alle spalle il periodo più buio della Serenissima, raccontano con accenti teatrali l’amore indissolubile di Artemisia e Mausolo (Sebastiano Mazzoni); il dramma di Rosmunda (Pietro della Vecchia); il suicidio di Lucrezia (Antonio Zanchi) e di Cleopatra (Mazzoni). Ma tra amore e morte, allegorie, ritratti e autoritratti, il profilo del pittore veneziano barocco resta ancora indefinito.