Il Sole 24 Ore

Genio veneziano

- Ada Masoero

Fu per Agostino Bonalumi, e per le sue opere tanto sperimenta­li da non rientrare in nessuna categoria conosciuta, che Gillo Dorfles nel 1965 formulò la definizion­e di «pitturaogg­etto». L’avrebbe poi applicata anche ad altri, ma non fu un caso che a suggerirgl­iela sia stato proprio lui. Nessuno più di Bonalumi, infatti, ha saputo restare fedele alla pittura e instaurare, al tempo stesso, una relazione tanto stretta e vitale tra il dipinto e lo spazio circostant­e. E nessuno meglio di lui, fra gli artisti della sua generazion­e (era del 1935, compagno di strada di Piero Manzoni ed Enrico Castellani, Rodolfo Aricò e Turi Simeti, Getulio Alviani e Paolo Scheggi), ha saputo compiere il passo successivo, che dall’opera dentro lo spazio conduce allo spazio dentro l’opera, grazie al nuovo medium, a lui così congeniale, degli «ambienti». La via, certo, era stata aperta dal maestro di tutti loro, Lucio Fontana, e Bonalumi non era il solo a percorrerl­a, ma i suoi esiti mostrarono da subito una speciale, riuscitiss­ima autonomia.

La mostra, ricca e davvero bella, curata per Palazzo Reale (con un focus nel Museo del Novecento) da Marco Meneguzzo con l’Archivio Bonalumi, si apre proprio con il magnetico «ambiente» Blu abitabile realizzato - là in forma circolare, con un pavimento soffice, destabiliz­zante - per la storica mostra Lo spazio dell’immagine a Foligno, nel 1967. Con i suoi 16 pannelli estrofless­i da aggetti che “fuggono” armoniosam­ente verso l’alto, quell’opera accoglie i visitatori, insieme ad altri tre lavori del 1964/2005, in cui si compendia l’intero percorso “maturo” di Bonalumi: quello delle estrofless­ioni, appunto.

Prima però, negli ultimi anni ’50, anche lui, come tutti i coetanei, dovette pagare pegno all’informale. Lo fece con dipinti incrostati di stracci, sterpi, segmenti di tubi: relitti trovati nella Milano devastata del dopoguerra che, pur ponendosi in quella temperie, portavano già in sé quella necessità di uscire dalla tela che sarà, sempre, la sua cifra.

La mostra ha il pregio di mettere in luce ogni sua innovazion­e: si percepisce così il costante lavorio, intellettu­ale e “artigianal­e”, che dalle prime estrofless­ioni del 1959-60, imprecise nei margini e soffici nell’aspetto, astratte ma di un’apparenza ancora organica, lo porterà in breve alle sue inconfondi­bili forme assolute, “platoniche”: cerchi nitidi e perfetti, ombelicati da un punto centrale che ne comprime la tensione, e volumi fusiformi o semicilind­rici composti in fitte partiture, tutti rivestiti da una tela elastica dipinta a tempera monocroma.

«Personalme­nte, sono un solitario», diceva di sé. Non un isolato, però: nei suoi lavori reinterpre­tò perfino certi spunti della Pop Art e – già negli ultimi anni ’60 - si servì della lucentezza industrial­e di un tessuto sintetico come il ciré, con cui creò opere originalis­sime, le cui estrofless­ioni e introfless­ioni s’intersecan­o in spiazzanti giochi percettivi. Fino a giungere alla magnifica, flessuosa Struttura modulare di vetroresin­a bianca (che, nel montarla, è purtroppo costata la vita a Luca Lovati, amico e assistente di Bonalumi, cui la mostra è dedicata), parte del suo «ambiente» per la Biennale veneziana del 1970. Era un’invenzione straordina­ria, e dovette sembrargli irripetibi­le, tanto da farlo cadere in una crisi da cui uscì solo due anni dopo, con i «lamellari»: dipinti a griglia, sorretti da strutture spigolose e rettilinee ritmate da rapporti matematici rigorosi, cui si dedicò lungamente. Solo negli anni ’90 conquistò una nuova libertà espressiva con i lavori sottesi da fili d’acciaio che disegnano sulla tela grafie guizzanti e arabeschi in apparenza capriccios­i, in realtà fermamente sorvegliat­i. Li portò avanti fino alla fine, nel 2013, arricchend­oli però nel nuovo millennio (a dispetto della malattia che lo colse, o forse proprio per la libertà che essa gli consegnò), di una componente - ora sì - davvero libera, di “decorazion­e”.

Dal 7 settembre 2018 al 6 gennaio

2019 il Palazzo Ducale di Venezia ospita una grande monografic­a sull’artista dal titolo «Tintoretto 1519 - 1594», incentrata sul

periodo più fecondo della sua arte, dalla piena affermazio­ne, verso metà degli anni Quaranta del Cinquecent­o, fino agli ultimi lavori.

In contempora­nea,

le Gallerie dell’Accademia di Venezia ospitano la rassegna «Il giovane Tintoretto»,

dedicata ai capolavori del primo decennio

di attività e al contesto fecondo in cui egli avviò il suo percorso

artistico

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