Il Sole 24 Ore

LUCKY E IL SENSO DEL TEMPO

- Roberto Escobar

Una testuggine attraversa lo schermo, da destra a sinistra. Lo sfondo è brullo, da qualche parte nel West, al confine con il Messico. Sotto il peso del suo guscio, lenta e decisa, segue il suo cammino. Inizia così Lucky (Usa, 2017, 88’), piccolo film sul vivere e sul morire.

A oltre novant’anni, Lucky – Harry Dean Stanton, nella sua ultima interpreta­zione – affronta ogni giornata dando al suo corpo fragile l’aiuto dello yoga. Intanto ascolta vecchie musiche mariachi, soprattutt­o Con el tiempo y con un ganchito. Ed è il tempo il “guscio” da cui Lucky è gravato. Lo è al punto da nascondere l’orologio sotto la manica della camicia. Poi, mattina dopo mattina, esce di casa e avanza con decisione lungo la via che attraversa il minuscolo paese in cui è invecchiat­o.

Il cinquanten­ne John Carroll Lynch e gli sceneggiat­ori quarantenn­i Logan Sparks e Drago Sumonja raccontano con affetto il cuore cupo e fiero del loro protagonis­ta. Non lo giudicano né lo commiseran­o. Lucky è un realista, come lui stesso dice di sé. Non si fa illusioni. Ogni giorno rinnova la sua consapevol­ezza amara, e la mostra per quella che è a chi ha la pazienza e l’amicizia di ascoltarlo. L’amicizia, gli dicono, è essenziale per l’anima. Ma l’anima non esiste, risponde lui.

Una volta, tanti anni fa, è stato un uomo forte, come ogni uomo giovane. Da marinaio ventenne ha combattuto i Giapponesi, poi ha avuto le sue donne, per quanto senza figli di cui sia informato. E ora sta al solito angolo del bancone di un bar, per lo più muto, e sempre puntiglios­amente sdegnoso. Non lontano siede Howard (David Lynch, il regista). È lui il padrone, anzi no, l’amico della testuggine che ha aperto il film. Mi ha abbandonat­o, si lamenta. E vorrebbe lasciarle in eredità le sue cose. Le testuggini, spiega, vivono anche duecento anni. E sono molto meglio di noi esseri umani. Portano con pazienza il peso del loro guscio, sapendo che sarà la loro tomba.

Torniamo così al tempo, di cui Lucky sente l’angoscia. Non ha malattie, anche se il suo corpo è svuotato. Il suo medico (Ed Begley Jr.) ha le idee chiare, per quanto spiacevoli. Non ci sono esami da fare, né cure da seguire. Sei vecchio, e lo diventi sempre di più. Questo è il fatto, come direbbe ogni testuggine mediamente assennata.

Ma Lucky non è una testuggine, per sua sfortuna. È un essere umano. Gli esseri umani si scoraggian­o, anche i più coraggiosi. E si disperano, anche quelli che più a lungo hanno sperato. Per di più, è un essere umano che ha scelto d’essere realista, nonostante la cosa appaia scomoda. Da ragazzo, senza volerlo, gli era capitato di uccidere un tordo. Ancora ci pensa. E ancora ricorda che il silenzio gettato sul mondo da quella piccola morte era stato devastante...

Ho paura, confida a una nuova amica (Yvonne Huff), e lei accoglie in sé la sua paura, e ne addolcisce l’anima. Non essendo una testuggine, non vivendo chiuso in un guscio, è il caso di affidarsi ad altri. Magari a un gruppo di Messicani in festa, cantando per loro e con loro Volver, volver, con dolce sensualità mariachi.

E poi? Poi conviene sorridere, come qualcuno gli racconta d’aver visto fare da una bambina, nel massacro della guerra, sull’isola di Tarawa, nel 1943. Andare incontro a quel che non potrà non essere, con un sorriso, questo decide Lucky. E questo conferma la testuggine di Howard, il cui cammino chiude il film. Da sinistra a destra dello schermo, lenta e decisa.

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«Lucky» di John Carroll Lynch Harry Dean Stanton è Lucky

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