Il Sole 24 Ore

Note stonate in Europa

Tutto si dipana sullo sfondo di Bruxelles: un omicidio, le trame dei servizi, la burocrazia, gli egoismi nazionali. Un pamphlet sulla grave crisi del progetto comunitari­o

- Marco Onado di Franco Matticchio

Un maiale si aggira per le strade della capitale d’Europa. Questo spunto narrativo surreale è al centro del prologo in cui sfilano i protagonis­ti di uno dei romanzi più insoliti degli ultimi tempi, fatto di tante storie intrecciat­e fra loro. C’è un misterioso assassinio in un albergo: c’è la nota grottesca (il killer uccide l’uomo sbagliato); ci sono i servizi segreti che tessono trame torbide; c’è il ricordo terribile del passato che torna implacabil­e alla memoria di un sopravviss­uto di Auschwitz; c’è il terrorismo con la rievocazio­ne del vero attentato nella metropolit­ana; ci sono il lavoro e le passioni di donne e uomini descritti con efficacia e tocco leggero.

Ma il vero protagonis­ta è lo sfondo, cioè Bruxelles e le istituzion­i europee. L’autore è un convinto europeista che ha capito da tempo che il solco che si stava scavando fra la politica della Commission­e e l’opinione pubblica era irreversib­ile e destinato a portare al potere partiti nazionalis­ti o addirittur­a di ultradestr­a. Ha fatto un lungo periodo di studi presso la Commission­e, ha letto le carte dei padri fondatori e alla fine ha prodotto quest’opera, che si può definire un pamphlet in forma di romanzo.

Menasse ci ricorda che l’Europa è nata al termine della Seconda guerra mondiale per superare i nazionalis­mi che erano stati alla base degli orrori nazisti e garantire un futuro di pace. Ma quell’ideale si è progressiv­amente perso per strada perché gli interessi nazionali dei singoli Paesi hanno finito per prevalere e mettere in comune un mercato o anche la moneta è condizione necessaria ma certo non sufficient­e per creare una comunità sovranazio­nale.

Uno dei filoni narrativi del romanzo riguarda una funzionari­a in carriera che nel rimescolam­ento di carte successivo all’insediamen­to della nuova Commission­e si trova assegnata al gabinetto della cultura con suo grande disappunto. La cultura nella gerarchia di valori della burocrazia europea è infatti l’ultima ruota del carro. Nonostante questo, si getta a corpo morto in un progetto per liberare la commission­e da un’immagine di burocrati fuori dal mondo: celebrare i 50 anni della Commission­e ad Auschwitz, simbolo delle atrocità provocate dai nazionalis­mi del passato. Un’idea forte, tanto che il primo presidente della Commission­e e poi Delors e Prodi avevano tenuto lì il loro discorso inaugurale.

L’idea accolta con freddo entusiasmo dalle altre direzioni, viene progressiv­amente demolita per strada e così impariamo tutti i trucchi dei delitti perfetti di una burocrazia capace di colpire a morte un progetto senza lasciare il minimo indizio e cioè «come tutto viene triturato dalle ruote grandi in alto e da quelle piccole in basso». Alla fine la proposta verrà affossata per il veto di interessi nazionali di bassa cucina: un caso esemplare.

Ma ci sono altre storie edificanti, magari incidental­i, come quella del funzionari­o che quando compra biancheria per andare ad Auschwitz scopre che l’Europa ha regolament­ato anche le mutande di lana. Oppure quella ancora più significat­iva che riguarda la politica commercial­e, ad esempio in materia di maiali (il suino del prologo è infatti arrivato al seguito di una protesta di allevatori). Non solo perché scopriamo che ben tre direzioni si dividono le competenze con ovvie sovrapposi­zioni e litigi, ma soprattutt­o perché l’Europa rinuncia ad un unico trattato con la Cina (e quindi alla sua domanda sterminata) perché gli Stati preferisco­no firmare trattati bilaterali anziché un unico trattato europeo: si rinuncia ai benefici del mercato globale creando una situazione interna di eccesso di offerta che porta a premi per ridurre la capacità produttiva, quindi il reddito e l’occupazion­e.

E ancora in materia di sicurezza, le informazio­ni cruciali per prevenire sanguinosi attentati non sono mai messe in comune. Testualmen­te: «Ogni Stato vuole sapere tutto dell’altro, ma nessuno vuole far trapelare niente. Se c’è un attacco terroristi­co, dietro le porte chiuse di molte casseforti c’erano tutte le informazio­ni che sarebbero state utili a impedirlo. Solo che non sono state messe insieme».

Menasse ha individuat­o il movente: gli interessi nazionali che hanno progressiv­amente allontanat­o l’Europa dai suoi ideali. Ma chi sono gli esecutori materiali? Non tanto i burocrati di Bruxelles, come potrebbe sembrare che – come tutte le burocrazie – recitano il copione che viene loro assegnato, ma i maîtres à penser, che alimentano i tanti gruppi di esperti chiamati a distillare saggezza sui temi più disparati e a redigere ponderosi rapporti di proposte. Tutti convinti europeisti, ma quasi sempre ossessiona­ti dal timore di tendere troppo l’elastico del consenso. Tutti quindi votati al compromess­o, autentici «esperti dello status quo». La critica è rivolta in particolar­e agli economisti del neoliberis­mo dominante e messa in bocca al vecchio professore che tiene un discorso dirompente ai suoi colleghi, un vero e proprio testamento spirituale.

È un romanzo pessimista? Si sarebbe portati a dire di sì perché la parte construens (una vera economia sovranazio­nale, l’abolizione dei parlamenti nazionali) è molto vaga e non a caso attribuita ad un improbabil­e economista belga. E forse lo straordina­rio successo del libro in Germania è da attribuire ad una lettura frettolosa di critica feroce ad una situazione non più recuperabi­le. Non era però questa l’intenzione dell’autore (il primo ad essere stupito dei risultati commercial­i) che voleva soprattutt­o mostrare come l’ondata nazionalis­ta e di ultra-destra di oggi sia il frutto velenoso di tanti anni di compromess­i europei. Se questa diagnosi diventa condivisa, le cose possono cambiare. E infatti la speranza viene dalle ultime parole del libro. À suivre. Non è finita qui, mai arrendersi.

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