Lo spirito di Olivetti nel polo cosmetico a Crema
L’impianto progettato da Marco Zanuso negli Anni 60 e rivitalizzato dall’imprenditore Renato Ancorotti è il cuore di un settore che produce il 67% del trucco consumato in Europa e ha superato gli 11 miliardi di ricavi
Una lunga serie di rotonde e strettoie, che anche i camion carichi di merci percorrono a passo d’uomo, e si arriva all’interno di una cittadella industriale di 51.700 metri quadrati di superficie coperta. Otto campi di calcio messi in fila. Il corpo centrale è un capannone di 30mila metri che spicca per la leggerezza delle linee, la facciata in alluminio, le grandi vetrate, i lucernari che ricordano quelli del Centre Pompidou di Parigi. Siamo alla ex Olivetti di Crema, davanti allo stabilimento progettato negli anni Sessanta da Marco Zanuso con l’assistenza del neolaureato Renzo Piano, addetto ai lucernari a cui poi si ispirerà per il suo capolavoro parigino. Dove c’era la centrale termica del complesso industriale, oggi c’è lo studio di Renato Ancorotti, l’imprenditore che nel 2008 ha insediato la neonata Ancorotti Cosmetics in uno dei capannoni del complesso e che nel 2017 ha rilevato il corpo centrale dal Tribunale fallimentare, a cui era arrivato dopo una serie di passaggi successivi alla chiusura della Olivetti nel 1992.
Qui la Olivetti, che nel momento del massimo splendore occupava tremila dipendenti, produceva la ET 101, la prima macchina per scrivere elettronica dotata di memoria, antesignana del computer. Qui Ancorotti produce cosmetici, il 20% del mascara venduto nel mondo, e pianifica l’espansione dell’azienda per assecondare un mercato in crescita tumultuosa. Ancorotti ha affidato la ristrutturazione del gioiello di archeologia industriale all’architetto Marco Ermentini, cremasco, suo compagno di scuola alle elementari. Il mandato è ambizioso: conservare lo spirito olivettiano che aleggia nello stabilimento e trasferirlo a una nuova produzione del made in Italy.
L’ufficio di Ancorotti è un trionfo di peperoncini, di tutte le dimensioni. Le pareti sono tappezzate di fotografie. Ricordi di famiglia. La farmacia del padre. Cimeli. Stalin e il suo stato maggiore. Ancorotti ritratto da Bob Kruger. Le icone del jazz. Dalla finestra dell’ufficio l’imprenditore indica il capannone centrale in fase di restauro. «Lo vedevo perdere pezzi tutti i giorni – dice Ancorotti - e ho deciso di rilevarlo. L’azienda cresce, avevamo bisogno di spazi per la produzione e la logistica. Abbiamo pianificato un investimento di otto milioni per costruire una fabbrica modello, con standard da industria farmaceutica».
La prima parte del recupero è stata ultimata. Diecimila metri quadrati exOlivetti sono diventati il magazzino Ancorotti. L’architetto Ermentini fa notare la solidità del pavimento in cemento, le altezze, gli spazi, la luce che viene dall’alto. «Ovunque facciamo un assaggio, un sondaggio - dice l’architetto - ci accorgiamo che sono stati usati i materiali e le tecniche migliori. Tutto questo lo conserveremo e lo stiamo integrando con le tecnologie costruttive meno invasive».
Ancorotti, che è anche presidente di Cosmetica Italia, l’associazione degli industriali del settore, è animato dallo stesso spirito del 2008, quando in piena crisi globale vendette le quote della sua vecchia impresa, la Gamma Croma (oggi Chromavis) e si lanciò nella nuova avventura. «In dieci anni siamo arrivati a 110 milioni di fatturato e 370 dipendenti di 22 nazionalità diverse, con un’età media di 34 anni, il 64% sono donne. Nel 2017 abbiamo fatto più di cento assunzioni a tempo indeterminato».
La parabola di Ancorotti Cosmetics non è molto diversa da quella delle più di 500 imprese del settore, la metà delle quali in Lombardia, un distretto diffuso definito dal Rapporto 2017 di Intesa SanPaolo «una delle novità produttive più rilevanti del sistema industriale italiano». Dal 2008 al 2018, mentre la produzione industriale crollava fino al meno 26% e poi risaliva faticosamente la china, l’industria cosmetica cresceva del 30%. Nel 2018, secondo le stime di Cosmetica Italia, il fatturato del settore arriverà a 11,4 miliardi, l’export a 5 miliardi e il saldo commerciale a 2,7 miliardi, entrambi più che raddoppiati rispetto al 2008. Il 67% del trucco consumato in Europa è prodotto in Italia.
«L’anticiclicità non basta a spiegare performance di questo livello», dice il sociologo Nadio Delai, curatore del rapporto sul valore dell’industria cosmetica italiana. «C’è un intreccio profondo tra i produttori e i consumatori. In nessun settore le imprese hanno un’ossessione così forte per le esigenze dei consumatori. I produttori hanno dimostrato resilienza e proattività rare. In questi anni hanno investito il 6% del fatturato in ricerca e sviluppo, hanno dimostrato prontezza e capacità di cogliere rapidamente le esigenze del mercato».
Se si scorre la classifica per fatturato delle imprese, tra le prime trenta c’è una dozzina di società del metadistretto lombardo, con specializzazioni e caratteristiche diverse: i marchi, come la bergamasca Kiko; i fornitori delle griffe, come le monzesi Euroitalia e Intercoss, la comasca Cosmint e la cremonese Chromavis; le imprese familiari di artigianalità-industriale come la lodigiana L’Erbolario. Molte di queste negli ultimi venti anni sono nate o hanno aumentato il loro business con acquisizioni mirate di marchi, politiche di sviluppo dei prodotti o della distribuzione.
La famiglia Percassi nel 1997 ha lanciato il marchio Kiko, il primo brand di cosmetici italiani distribuito da una catena di proprietà. La formula del monomarca con consulenza just on time fornita da giovani collaboratrici (oggi sono 4.500) all’interno dei negozi (sono 950 nel mondo) è stato il grimaldello per aprire il mercato. Dopo la correzione di rotta e il posizionamento su una linea di prodotti popolari e a prezzo accessibile, Kiko ha conosciuto una stagione di crescita esponenziale e una successiva di risultati. Il fatturato 2017 è stato di 610 milioni di euro (+3%) e l’Ebitda è stato positivo per 30 milioni, il debito è di 200 milioni. A fine luglio il fondo Peninsula ha sottoscritto una quota del 33% del capitale con un investimento di 80 milioni di euro per finanziare il piano di sviluppo.
Da un anno alla guida del gruppo c’è Cristina Scocchia, ex numero uno di Loreal Italia. «Il piano industriale triennale prevede investimenti per 90 milioni di euro. L’obiettivo – spiega Scocchia - è la valorizzazione del marchio, il miglioramento della qualità del prodotto, lo sviluppo dei canali digitali, ai quali sono destinati 25 milioni di euro, e il riposizionamento geografico dei negozi». Un piano realista che punta sull’online, prende atto della difficoltà di sfondare sul mercato americano (resteranno aperti solo tre dei trenta negozi) e delle enormi potenzialità dell’Asia, in particolare Turchia, Medio Oriente, India e Cina in cui verranno aperti 73 monomarca. «Sono le aree in cui i millennials crescono e sono attratti da prodotti made in Italy a prezzi accessibili. Sul canale digitale - dice Scocchia - abbiamo ampi margini di crescita. Attualmente vale il 3,5% del fatturato, puntiamo ad arrivare fino al 10%».
L’Erbolario di Lodi ha invece cavalcato l’onda della sostenibilità. Luigi Bergamaschi rappresenta la seconda generazione dell’impresa. I suoi genitori hanno avviato l’impresa da una piccola bottega artigiana nel 1978. Stanno festeggiando i 40 anni aprendo lo stabilimento ai clienti. «Abbiamo scelto una nicchia, gli ingredienti naturali e vegetali - spiega - e abbiamo lavorato per sviluppare un progetto coerente basato sul controllo dell’intera filiera e sulla produzione interna». Una ricetta, è il caso di dirlo, che ha consentito a una realtà piccola, 83 milioni di euro di fatturato, di costruire un prodotto molto identificabile, distribuito in 5.200 punti vendita selezionati (erboristerie e farmacie) e nei 170 negozi monomarca, parte di proprietà e parte in franchising. «Il prossimo step – dice Bergamaschi – è crescere all’estero dove realizziamo solo il 12% dei ricavi. Ma il 50% dell’export lo facciamo in Asia, l’area in cui i consumi crescono di più e il made in Italy ha più prospettive».
Il polo lombardo cresce grazie ai fornitori delle griffe e ai marchi del nuovo made in Italy