Mantegna in punta di penna
I pochi scritti pervenuti di mano del maestro (contratti, ricevute e lettere) sono stati attentamente analizzati nella grafia, nella morfologia, nella sintassi e nel lessico
Gli scritti degli artisti italiani del Rinascimento non hanno in generale attirato l’interesse degli storici della lingua, a parte le debite eccezioni rappresentate da quei maestri che hanno lasciato, oltre a opere d’arte celeberrime, anche un’eredità cospicua di trattati, biografie, autobiografie e poesie. Sono gli artisti-scrittori (come Leon Battista Alberti, Piero della Francesca, Leonardo da Vinci, Michelangelo, Vasari, Cellini, Palladio e pochi altri), le personalità che i linguisti hanno approfondito sul fronte specifico della lingua e del lessico.
Altri giganti dell’arte italiana, che non hanno avuto con la lingua un approccio espressamente letterario, attendono ancora di essere debitamente esaminati proprio sul versante delle parole da loro scritte. Per il grande Andrea Mantegna, uno dei protagonisti della pittura italiana del Quattrocento, quest’attesa si è finalmente conclusa. Con il volume Andrea Mantegna allo scrittoio. Un profilo linguistico, redatto da Alessandro Aresti, tutti gli scritti pervenutici del pittore padovano sono stati esaminati e interpretati parola per parola, rivelando informazioni e dettagli molto interessanti.
Che uso avesse Mantegna della lingua lo possiamo dedurre da un numero purtroppo esiguo di scritti: 1) il contratto da lui stipulato con il Monastero di Santa Giustina a Padova per il Polittico di San Luca oggi conservato a Brera; 2) alcune note di pagamento relative allo stesso polittico; 3) 26 lettere scritte ai marchesi di Mantova (Ludovico III, Federico I, Francesco II e Isabella d’Este) e una indirizzata a Lorenzo il Magnifico. Tutti questi scritti sono già noti e pubblicati da tempo, ma in edizioni che hanno spesso offerto trascrizioni imprecise e poco affidabili. Con questa nuova edizione filologicamente aggiornata (completa dell’analisi della grafia, della morfologia, della sintassi e del lessico mantegnesco), gli storici dell’arte possono ora disporre di uno strumento di conoscenza più corretto e attendibile, dunque più utile per la comprensione dell’artista, della sua cultura e del mondo in cui si trovò a vivere e a operare.
Il contratto autografo che Mantegna stipulò per la realizzazione del
Polittico di San Luca il 10 agosto 1453, reca in calce la firma dell’artista: «Mi Andrea Mantegna ho scritto de mia man propria». In esso il pittore si impegna a realizzare le tavole del polittico procurandosi i colori a sue spese e accettando un compenso onnicomprensivo di 50 ducati veneziani da riscuotere in tre rate.
Analogamente, dalle 27 lettere mantegnesche ci si aspetterebbero molte informazioni di carattere artistico. Invece, si constata che tali informazioni sono scarse e generiche. Nelle missive si parla di misure per una stanza del castello gonzaghesco di Cavriana, di tavole che non sono pronte perché non si sono ancora verniciate le cornici, di un quadro con «la instoria del linbo» che non è ancora terminato per colpa di «Vicencio maragone» (falegname) che «à dato molto tardi el lignamine». Durante un soggiorno a Roma, presso la corte pontificia, Mantegna raccomanda per iscritto al marchese Francesco Gonzaga di proteggere le tele dei Trionfi, mettendo dei serramenti alle finestre nella sala in cui si trovano: la missiva è accompagnata anche da un dono, un «quadretino» destinato al marchese. Nell’ultima lettera nota - inviata nel 1506 a Isabella d’Este - il pittore annuncia che, nonostante la malattia, ha «quaxi finito di dessignare la instoria di Comos». Oggi sappiamo che il maestro non riuscirà a portare a termine quell’opera per il sopraggiungere della morte. Fine delle notizie artistiche.
Il grosso delle lettere ci fornisce invece ampi spaccati di prosaica quotidianità: Mantegna è l’uomo che chiede in continuazione soldi ai Gonzaga, è il padre che armeggia per ottenere un beneficio ecclesiastico per il figlio Ludovico; è il cortigiano ambizioso che arriva dopo vent’anni a costruirsi una gran casa salvo poi accorgersi di non riuscire a mantenerla (ed è costretto a venderla ai Gonzaga). Nonostante le continue lagnanze d’indigenza («da niuna parte, già molti mesi, non posso aver un quatrino»), Mantegna riesce a comperare numerosi appezzamenti di terra e a collezionare astiose liti con i vicini: nelle lettere veniamo edotti di scontri verbalmente violenti con l’ortolano limitrofo al quale indirizza coloriti insulti, con i due proprietari confinanti accusati di essersi impossessati un viottolo di sua proprietà, e con il «bastardo» che viene nel suo brolo a rubargli le pere e le mele cotogne. Anche in città, Mantegna denuncia di avere subito furti di soldi, di oggetti preziosi e persino di mattoni.
La rigorosa analisi della grafia delle lettere ha chiarito che solo 18 delle 27 missive sono realmente di pugno del Mantegna. Queste lettere autografe - vergate in un’elegante scrittura umanistica - si rivelano linguisticamente un mix di latino, toscano letterario e volgare padovano. L’arsenale linguistico mantegnesco si era formato con ogni probabilità a contatto con i circoli degli umanisti padovani, che si accorsero presto della «man industriosa et l’alto ingegno» di questo enfant prodige, capace di dipingere come uno scultore e di riportare in auge i fasti della classicità.
Vi è anche il sensato sospetto che nella formazione linguistica di Mantegna abbia avuto un ruolo la sua personale e notevole biblioteca, di cui conosciamo bene la consistenza grazie all’inventario che ne fece il figlio Ludovico alla morte del padre. In un «forzero depinto», Andrea Mantegna conservava volumi a stampa e manoscritti in latino, italiano, francese e in lingua «bergognona». Vi figuravano opere di Cicerone e Raimondo Lullo, di «Terencio, Iuvenale e Marciale», di Virgilio («Eneida vulgare in forma picola») e anche di Ovidio («In arte amandi»). La biblioteca comprendeva inoltre testi filosofici, scientifici e devozionali («uno libretto di sette psalmi», «la passione de Christo», eccetera).
Esaminati questi testi, è legittimo ipotizzare che anche dalla lettura dei libri possa essere scaturito lo zampillo della lingua e del lessico del maestro, «fidele servidore», «servus fidelissimus» che - a seconda delle circostanze e del destinatario - si firmava «Mantegna», «Mantenga», «Mantengna», «Mantinia» e «Mantinea». Insomma,
unicuique suum (a ciascuno il suo).
Capolavoro
Andrea Mantegna, «San Luca allo scrittoio», particolare del «Polittico di San Luca» (Milano, Brera), di cui si conserva il contratto con il Monastero di Santa Giustina a Padova redatto e firmato personalmente da Andrea Mantegna il 10 agosto 1453
La lingua del maestro risulta un mix di latino, italiano e dialetto
padovano