La virtù nascosta della costanza aiuta a vincere il tempo
Più forte dell’amore, deve essere osservata nutrendo l’impegno che si rinnova, tenendo lontana l’inopportunità della petulanza
‘‘ LA TENACIA GIÀ CARA AGLI ANTICHI DEL «GUTTA CAVAT LAPIDEM», LAVORO SENZA INTERMISSIONE
«Non c’è lavoro inutile: Sisifo [sospingendo in sù il masso] si faceva i muscoli» (Roger Caillois, Le Rocher de Sisyphe, 1946, esergo).
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Al compimento del nostro percorso, e parlando di «costanza», affiora il dubbio se essa - con la «generosità» - non debba essere eletta piuttosto tra le virtù grandi. Ne ebbe coscienza Torquato Tasso il quale nel suo dialogo Il Porzio, o vero de le virtù (meditazione che ci è stata di modello) mette di fronte le riserve di Muzio Pignatello e le difese aristoteliche di Simon Porzio: «M.P.: “Veggio, o mi par di vedere, alcune belle ma picciole schiere di virtù; fra le quali ricerco indarno la costanza, la sofferenza, la fiducia, la pietà e la riverenza, e l’altre, de le quali alcuna volta ho sentito ragionare”; S.P.: “Voi avete nominato alcune compagne e seguaci de le virtù, de le quali non si dimenticò sempre Aristotile: ma in alcun suo libro particolare l’ordinò insieme con le altre [scil.: cardinali], aggiungendo a la fortezza la sofferenza, la costanza e la fiducia; a la giustizia la pietà […]; a la temperanza la riverenza”».
La costanza insomma appartiene al corollario della “fortezza”, perché perseverante; e per la sua “stabilità” nutre l’amicizia, assai meglio che l’amore: «l’amore nasce incontanente a guisa di fuoco, che subito si appiglia; l’amicizia allo incontro tardi si ristringe, e tardi, o non mai, si rallenta: dunque dell’amicizia è propria la costanza» (Il Manso, o dell’amicizia). Sarebbe stata ambizione ridurre la possente e articolata struttura etico-filosofica dei Dialoghi del Tasso a un bouquet più modesto, da esibire al tempo avaro che viviamo; mi accontento anche di meno, ma senza privarmi di tale splendida palestra di virtù civili. L’amore, in ogni caso, è men costante dell’amicizia, nel sentire della fine del XVI secolo; lo conferma un garbato madrigale di Battista Guarini: «Amor, non ha il tuo regno / Più perfido del mio, più lieve amante / Né donna più di me fida e costante» (Donna costante).
È un «indesinenter», un «pensiero dominante» sopra ogni incertezza, «che incontro al ver tenacemente dura» (Leopardi), un senza posa e “senza fine” (siano per una volta concessi Gino Paoli & Ornella Vanoni), che conferisce slancio al vivere umano, come chiosava lo stesso Leopardi: «Nella stessa maniera dico io delle antiche istituzioni ec. tendenti a fomentare l’entusiasmo, le illusioni, il coraggio, l’attività, il movimento, la vita. Erano illusioni, ma toglietele, come son tolte. Che piacere rimane? e la vita che cosa diventa? Nella stessa maniera dico: la virtù, la generosità, la sensibilità, la corrispondenza vera in amore, la fedeltà, la costanza, la giustizia, la magnanimità ecc. umanamente parlando sono enti immaginari. E tuttavia l’uomo sensibile se ne trovasse frequentemente nel mondo, sarebbe meno infelice, e se il mondo andasse più dietro a questi enti immaginari (astraendo ancora da una vita futura), sarebbe molto meno infelice» (Zibaldone, §§ 271-272).
Ma alla costanza va riconosciuto un registro anche più modesto di quello leopardiano: un quotidiano «Gutta cavat lapidem» (“la goccia scava anche la pietra” non per la sua forza ma per lo stillicidio - adagio che si rinnova nella classicità da Ovidio a Giordano Bruno), chiamato a testimoniare della tenacia di dedicarsi a un esercizio senza intermissione.
Anche la preghiera, negli Evangeli, ha un po’ il sapore di quell’infaticabile pulsare: «Poi disse loro: Se uno di voi ha un amico e va da lui a mezzanotte e gli dice: “Amico, prestami tre pani, perché un amico mi è arrivato in casa da un viaggio e non ho nulla da mettergli davanti”; e se quello dal di dentro gli risponde: “Non darmi fastidio; la porta è già chiusa, e i miei bambini sono con me a letto, io non posso alzarmi per darteli”, io vi dico che se anche non si alzasse a darglieli perché gli è amico, tuttavia, per la sua importunità, si alzerà e gli darà tutti i pani che gli occorrono. Io dunque vi dico: chiedete, e vi sarà dato; cercate e troverete; bussate e vi sarà aperto» (Luca, XI, 5-9).
Naturalmente sottile è il discrimine tra l’impegno, che si rinnova, della costanza, e l’inopportunità compulsiva della petulanza; la costanza non è un “chiedere per avere”, ma un restare fedele a sé, a un idolo, a un sogno, quasi senza parole e senza condizioni, quale che sia la promessa, intravista, della novità: «Apparteneva alla ciurma di Colombo e si domandava se sarebbe ritornato nel villaggio natio in tempo per stabilirvisi da nuovo ciabattino prima che qualcuno lo precedesse nel sostituire quello vecchio» (Hammarskjöld, Linee della vita, nota del 1951).
Si potrebbe persin immaginare, con sant’Agostino, che la costanza sia un esercizio nel tempo, ma per vincere, ignorandolo, il tempo. È un’osservazione delle Confessioni che si insinua anche nelle meditazioni ultime di Italo Calvino: «Ho udito dire da una persona istruita che il tempo è, di per sé, il moto del sole, della luna e degli astri ; e non assentii. Perché il tempo non sarebbe piuttosto il moto di tutti i corpi? Qualora si arrestassero gli astri del cielo, e si muovesse la ruota del vasaio, non esisterebbe più il tempo per misurarne i giri e poter dire che hanno durate uguali, oppure, se si svolgono ora più lenti, ora più veloci, che gli uni sono più lunghi, gli altri meno? E ciò dicendo, non parleremmo noi stessi nel tempo? e non vi sarebbero nelle nostre parole sillabe lunghe e brevi per la sola ragione che le prime risuonarono per un tempo più lungo, le seconde più breve? O Dio, concedi agli uomini di scorgere in un fatto modesto i concetti comuni delle piccole come delle grandi realtà» [Agostino, Confessioni, libro XI , XXIII, 29; e Calvino lettera a Primo Levi, da Castiglion della Pescaia, del 10 agosto 1985, a poche settimane dalla morte (6 settembre)].
La costanza che più amo è la ruota del vasaio, il giro dei muli intorno alla macina, il dondolìo delle braccia che falciano l’erba, la nenia “che torna a tornare”, il carrettiere in via: «cantando, con mesta melodia, / l’estremo albor della fuggente luce, / che dianzi gli fu duce, / saluta il carrettier dalla sua via» (Leopardi, Il tramonto della luna): tutto ciò che, con silente cadenza, assicura la durata dell’umano; nihil novi sub sole, nostra sola eternità.
In fondo, altro non è da cercare nelle “virtù nascoste”che «scorgere in un fatto modesto i concetti comuni delle piccole come delle grandi realtà».
Illustrazione di Anna Godeassi
LA SERIE COMPLETA
Si completa domani, con la virtù della Generosità, il viaggio intrapreso da Carlo Ossola alla ricerca delle 12 virtù
nascoste che ci aiutano a vivere meglio