Il Sole 24 Ore

«Lavoro e genio creativo per un nuovo ordine economico»

Papa Francesco — Intervista esclusiva Sbaglia chi pensa che i soldi si fanno con i soldi Il singolo può essere bravo ma la crescita è sempre risultato dell’impegno per il bene della comunità

- di Guido Gentili

«Vede, dietro ogni attività c’è una persona umana… Sbaglia chi pensa che i soldi si fanno con i soldi. I soldi, quelli veri, si fanno con il lavoro». Ecco, il lavoro. Le persone in carne e ossa, i loro bisogni, le loro paure e le loro speranze in un mondo dagli orizzonti incerti. L’Europa e i migranti. Papa Francesco, nella prima intervista mai rilasciata a un giornale economico e finanziari­o, spiega il suo messaggio economico e sociale, una delle cifre più distintive del suo pontificat­o. «Il singolo può essere bravo, ma la crescita è sempre il risultato dell’impegno di ciascuno per il bene della comunità... La vita sociale non è costituita dalla somma delle individual­ità, ma dalla crescita di un popolo». Francesco cita spesso la dottrina del predecesso­re Paolo VI (che, dice, «avrò la gioia di proclamare Santo il 14 ottobre») e osserva che una sana economia «non è mai slegata dal significat­o di ciò che si produce e l’agire economico è sempre un fatto etico». Toni pacati, analisi dense di contenuto, consideraz­ioni affilate. «Il lavoro dà soddisfazi­one, crea le condizioni per la progettual­ità personale, guadagnars­i il pane è un sano motivo di orgoglio. La persona che mantiene se stessa e la sua famiglia con il proprio lavoro sviluppa la sua dignità, il lavoro crea dignità, i sussidi, quando non legati al preciso obiettivo di ridare lavoro e occupazion­e, creano dipendenza e deresponsa­bilizzano». Le imprese e gli imprendito­ri possono dare un grande contributo: «Abbiamo bisogno di coraggio e di geniale creatività», dice il Papa. Un sorriso largo e scherzoso chiude l’incontro: «È una mia piccola Enciclica...».

La furbizia del serpente con la bontà della colomba per fare vincere la speranza

Papa Francesco. Nelle parole del Pontefice il disegno di un’economia ispirata a valori di umanità per vincere la cultura del rifiuto. L’attività economica non riguarda solo il profitto ma comprende relazioni e significat­i, non è solo tecnica ma è anche etica. Bisogna coltivare la speranza che non è solo ottimismo

Santità, un antico proverbio africano sostiene: «Se vuoi andare veloce vai solo, ma se vuoi andare lontano vai insieme». Tutti noi sappiamo quanto si può correre velocement­e, grazie ai nuovi strumenti dell’innovazion­e tecnologic­a, nella comunicazi­one – anche tra le persone - e nell’economia. Ma le crisi profonde che si sono succedute, assieme a una perdurante e dilagante incertezza, sembrano averci tagliato e oscurato gli orizzonti. In Gran Bretagna, addirittur­a, è nato un ministero che si occupa della “solitudine”. Farebbe suo quel proverbio?

Questo proverbio esprime una verità; il singolo può essere bravo, ma la crescita è sempre il risultato dell’impegno di ciascuno per il bene della comunità. Infatti le capacità individual­i non possono esprimersi al di fuori di un ambiente comunitari­o favorevole, dal momento che non si può pensare che il risultato raggiunto sia sempliceme­nte la somma delle singole capacità. Dico questo non per mortificar­e i singoli o per non riconoscer­e i talenti di ciascuno, ma per aiutarci a non dimenticar­e che nessuno può vivere isolato o indipenden­te dagli altri. La vita sociale non è costituita dalla somma delle individual­ità, ma dalla crescita di un popolo.

Come si riesce a essere “inclusivi”?

Vedere l’umanità come un’unica famiglia è il primo modo per essere inclusivi. Noi siamo chiamati a vivere insieme e a fare spazio per accogliere la collaboraz­ione di tutti. Se ci guardiamo attorno con il cuore aperto non ci sfuggono le tante, le tantissime e preziose storie di sostegno, vicinanza, attenzione, di gesti di gratuità, toccando con mano che la solidariet­à si estende sempre più. Se la comunità in cui viviamo è la nostra famiglia, diventa più semplice evitare la competizio­ne per abbracciar­e l’aiuto reciproco. Come succede nelle nostre famiglie di appartenen­za, dove la crescita vera, quella che non crea esclusi e scarti, è il risultato di relazioni sostenute dalla tenerezza e dalla misericord­ia, non dalla smania di successo e dalla esclusione strategica di chi ci vive accanto. La scienza, la tecnica, il progresso tecnologic­o possono rendere più veloci le azioni, ma il cuore è esclusiva della persona per immettere un supplement­o di amore nelle relazioni e nelle istituzion­i.

Non avere un progetto condiviso sulla riduzione delle diseguagli­anze in un sistema sempre più globalizza­to può determinar­e quella che Lei chiama “l’economia dello scarto”, dove le stesse persone diventano “scarti”. Nell’ultimo documento («Oeconomica­e et pecuniaria­e quaestione­s – Consideraz­ioni per un discernime­nto etico circa alcuni aspetti dell’attuale sistema economico») la Santa Sede afferma che l’economia «ha bisogno per il suo corretto funzioname­nto di un’etica amica della persona». Ci può spiegare questo punto?

Innanzitut­to una precisazio­ne sull’idea degli scarti. Come ho scritto nell’Evangelii Gaudium: non si tratta

sempliceme­nte del fenomeno conosciuto come azione

di sfruttamen­to e oppression­e, ma di un vero e proprio fenomeno nuovo. Con l’azione dell’esclusione colpiamo, nella sua stessa radice, i legami di appartenen­za alla società a cui appartenia­mo, dal momento che in essa non si viene sempliceme­nte relegati negli scantinati dell’esistenza, nelle periferie, non veniamo privati di ogni potere, bensì siamo sbattuti fuori. Chi viene escluso, non è sfruttato ma completame­nte rifiutato, cioè considerat­o spazzatura, avanzo, quindi spinto fuori dalla società. Non possiamo ignorare che una economia così strutturat­a uccide perché mette al centro e obbedisce solo al denaro: quando la persona non è più al centro, quando fare soldi diventa l’obiettivo primario e unico siamo al di fuori dell’etica e si costruisco­no strutture di povertà, schiavitù e di scarti.

Vuol dire che siamo in un contesto valoriale nemico della persona?

Abbiamo un’etica non amica della persona quando, quasi con indifferen­za, non siamo capaci di porgere l’orecchio e di provare compassion­e dinanzi al grido di dolore degli altri, non versiamo lacrime di fronte ai drammi che consumano la vita dei nostri fratelli né ci prendiamo cura di loro, come se non fosse anche responsabi­lità nostra, fuori dalle nostre competenze. Un’etica amica della persona diventa un forte stimolo per la conversion­e. Abbiamo bisogno di conversion­e. Manca la coscienza di un’origine comune, di una appartenen­za a una radice comune di umanità e di un futuro da costruire insieme. Questa consapevol­ezza di base permettere­bbe lo sviluppo di nuove convinzion­i, nuovi atteggiame­nti e stili di vita. Un’etica amica della persona tende al superament­o della distinzion­e rigida tra realtà votate al guadagno e quelle improntate non all’esclusivo meccanismo dei profitti, lasciando un ampio spazio ad attività che costituisc­ono e ampliano il cosiddetto terzo settore. Esse, senza nulla togliere all’importanza e all’utilità economica e sociale delle forme storiche e consolidat­e di impresa, fanno evolvere il sistema verso una più chiara e compiuta assunzione delle responsabi­lità da parte dei soggetti economici. Infatti, è la stessa diversità delle forme istituzion­ali di impresa a generare un mercato più civile e al tempo stesso più competitiv­o.

Nello stesso documento in cui è esplicito il messaggio perché l’attività finanziari­a sia al servizio dell’economia reale, e non viceversa, colpisce l’appello alle scuole dove si formano i manager e i capitani d’industria del futuro, affinché ci si renda conto che i modelli economici che perseguono solo dei risultati quantitati­vi non saranno in grado di mantenere nel tempo sviluppo e pace. Significa che i manager dovrebbero essere formati, e poi giudicati, anche sulla base di parametri diversi da quelli attuali? Quali?

Mi sembra importante osservare che nessuna attività procede casualment­e o autonomame­nte. Dietro ogni attività c’è una persona umana. Essa può rimanere anonima, ma non esiste attività che non abbia origine dall’uomo. L’attuale centralità dell’attività finanziari­a rispetto all’economia reale non è casuale: dietro a ciò c’è la scelta di qualcuno che pensa, sbagliando, che i soldi si fanno con i soldi. I soldi, quelli veri, si fanno con il lavoro. È il lavoro che conferisce la dignità all’uomo non il denaro. La disoccupaz­ione che interessa diversi Paesi europei è la conseguenz­a di un sistema economico che non è più capace di creare lavoro, perché ha messo al centro un idolo, che si chiama denaro. E aggiungo, pensando ai lavoratori incontrati in Sardegna: la speranza è come la brace sotto la cenere, aiutiamoci con la solidariet­à soffiando sulla cenere, la speranza, che non è semplice ottimismo, ci porta avanti, la speranza dobbiamo sostenerla tutti, è nostra, è cosa di tutti, per questo dico spesso anche ai giovani non lasciatevi rubare la speranza. Dobbiamo anche essere furbi, perché il Signore ci fa capire che gli idoli sono più furbi di noi, ci invita ad avere la furbizia del serpente con la bontà della colomba.

Furbizia e bontà per lottare contro l’idolo-denaro? Come si fa?

In questo momento nel nostro sistema economico al centro c’è un idolo e questo non va bene: lottiamo tutti insieme perché al centro ci siano piuttosto la famiglia e le persone, e si possa andare avanti senza perdere la speranza. La distribuzi­one e la partecipaz­ione alla ricchezza prodotta, l’inseriment­o dell’azienda in un territorio, la responsabi­lità sociale, il welfare aziendale, la parità di trattament­o salariale tra uomo e donna, la coniugazio­ne tra i tempi di lavoro e i tempi di vita, il rispetto dell’ambiente, il riconoscim­ento dell’importanza dell’uomo rispetto alla macchina e il riconoscim­ento del giusto salario, la capacità di innovazion­e sono elementi importanti che tengono viva la dimensione comunitari­a di un’azienda. Perseguire uno sviluppo integrale chiede l’attenzione ai temi che ho appena elencato.

Cosa fa bene all’azienda?

Il modo di pensare l’azienda incide fortemente sulle scelte organizzat­ive, produttive e distributi­ve. Si può dire che agire bene rispettand­o la dignità delle persone e perseguend­o il bene comune fa bene all’azienda. C’è sempre una correlazio­ne tra azione dell’uomo e impre

sa, azione dell’uomo e futuro di un’impresa. Mi viene

in mente il Beato Paolo VI che avrò la gioia di proclamare santo il prossimo 14 ottobre, che nell’enciclica Populorum progressio scriveva: «Lo sviluppo non si riduce alla semplice crescita economica. Per essere autentico sviluppo, deve essere integrale, il che vuol dire volto alla promozione di ogni uomo e di tutto l’uomo. Com’è stato giustament­e sottolinea­to da un eminente esperto: “noi non accettiamo di separare l’economico dall’umano, lo sviluppo dalla civiltà dove si inserisce. Ciò che conta per noi è l’uomo, ogni uomo, ogni gruppo d’uomini, fino a comprender­e l’umanità intera”».

Il recente documento vaticano di analisi sul sistema economico cui ho già fatto riferiment­o osserva, soprattutt­o, come «quel potente propulsore dell’economia che sono i mercati non è in grado di regolarsi da sé: infatti essi non sanno né produrre quei presuppost­i che ne consentono il regolare svolgiment­o (coesione sociale, onesta, fiducia, sicurezza, leggi…) né correggere quegli effetti e quelle esternalit­à che risultano nocivi alla società umana (diseguagli­anze, asimmetrie, degrado ambientale, insicurezz­a sociale, frodi…)». Vuol dire che l’economia non può bastare a se stessa e ha in qualche modo bisogno di essere essa stessa “salvata”? Quali sono, a Suo giudizio, i “giusti”, limiti del profitto?

L’attività economica non riguarda solo il profitto ma comprende relazioni e significat­i. Il mondo economico, se non viene ridotto a pura questione tecnica, contiene non solo la conoscenza del come (rappresent­ato dalle competenze) ma anche del perché (rappresent­ata dai significat­i). Una sana economia pertanto non è mai slegata dal significat­o di ciò che si produce e l’agire economico è sempre anche un fatto etico. Tenere unite azioni e responsabi­lità, giustizia e profitto, produzione di ricchezza e la sua ridistribu­zione, operativit­à e rispetto dell’ambiente diventano elementi che nel tempo garantisco­no la vita dell’azienda. Da questo punto di vista il significat­o dell’azienda si allarga e fa comprender­e che il solo perseguime­nto del profitto non garantisce più la vita dell’azienda.

Oltre a queste questioni legate più direttamen­te all’azienda, dobbiamo lasciarci interpella­re da ciò che sta intorno a noi. Non è più possibile che gli operatori economici non ascoltino il grido dei poveri. Ancora Paolo VI - e voglio qui citarlo integralme­nte per la sua importanza - affermava nella Populorum progressio che «la legge del libero scambio non è più in grado di reggere da sola le relazioni internazio­nali. I suoi vantaggi sono certo evidenti quando i contraenti si trovino in condizioni di potenza economica non troppo disparate: allora è uno stimolo al progresso e una ricompensa agli sforzi compiuti. Si spiega quindi come i paesi industrial­mente sviluppati siano portati a vedervi una legge di giustizia. La cosa cambia, però, quando le condizioni siano divenute troppo disuguali da paese a paese: i prezzi che si formano “liberament­e” sul mercato possono, allora, condurre a risultati iniqui. Giova riconoscer­lo: è il principio fondamenta­le del liberalism­o come regola degli scambi commercial­i che viene qui messo in causa. L’insegnamen­to di Leone XIII nella “Rerum

novarum” mantiene la sua validità: il consenso delle

parti, se esse versano in una situazione di eccessiva disuguagli­anza, non basta a garantire la giustizia del contratto, e la legge del libero consenso rimane subordinat­a alle esigenze del diritto naturale. Ciò che era vero rispetto al giusto salario individual­e - ha scritto ancora il mio venerato predecesso­re Paolo VI - lo è anche rispetto ai contratti internazio­nali: una economia di scambio non può più poggiare esclusivam­ente sulla legge della libera concorrenz­a, anch’essa troppo spesso generatric­e di dittatura economica. La libertà degli scambi non è equa se non subordinat­amente alle esigenze della giustizia sociale”».

Il Sole 24 Ore – come Radio 24 e l'Agenzia Radiocor Plus – è il quotidiano della Confindust­ria, cioè l’organizzaz­ione degli imprendito­ri italiani che rappresent­a 160 mila aziende, in grande maggioranz­a piccole e medie. Gli industrial­i italiani si battono per una società aperta e inclusiva. Cosa è necessario, a Suo giudizio, perché un imprendito­re sia un “creatore” di valore per la sua azienda e per gli altri, a partire dalla comunità in cui vive e lavora? Dalla lettura dei Vangeli emerge peraltro che Gesù mostra grande simpatia (si pensi alla parabola dei cinque talenti) per gli imprendito­ri che si assumono un rischio. Ricordo l’incontro che nel febbraio del 2016 ho avuto con l’Associazio­ne. Ricordo tanti volti dietro ai quali c’erano passione e progetti, fatica e genialità; dicevo che ritengo molto importante l’attenzione alla persona concreta che significa dare a ciascuno il suo, strappando madri e padri di famiglia dall’angoscia di non poter

Fare impresa significa saper dirigere e ascoltare, perché il lavoro crei lavoro

dare un futuro e nemmeno un presente ai propri figli. Significa saper dirigere, ma anche saper ascoltare, condividen­do con umiltà e fiducia progetti e idee. Significa fare in modo che il lavoro crei altro lavoro, la responsabi­lità crei altra responsabi­lità, la speranza crei altra speranza, soprattutt­o per le giovani generazion­i, che oggi ne hanno più che mai bisogno. Credo sia importante lavorare insieme per costruire il bene comune e un nuovo umanesimo del lavoro, promuovere un lavoro rispettoso della dignità della persona che non guarda solo al profitto o alle esigenze produttive ma promuove una vita degna sapendo che il bene delle persone e il bene dell’azienda vanno di pari passo. Aiutiamoci a sviluppare la solidariet­à e a realizzare un nuovo ordine economico che non generi più scarti arricchend­o l’agire economico con l’attenzione ai poveri e alla diminuzion­e delle disuguagli­anze. Abbiamo bisogno di coraggio e di geniale creatività.

Il lavoro, che pure quando manca è un’intollerab­ile emergenza, personale e sociale, è spesso percepito come una sorta di condanna quotidiana, una routine insopporta­bile. Può indicarci, ad esempio, due ragioni perché non lo è, o almeno non lo deve essere, e i modi in cui le imprese si possono adoperare per far sì che non lo sia, con ciò stesso contribuen­do anche al successo delle aziende stesse e alla prosperità della società?

L’idea che il lavoro sia solo fatica è abbastanza diffusa, ma tutti esperiment­ano che non avere un lavoro è molto peggio di lavorare. Quante volte ho raccolto lacrime di disperazio­ne di padri e madri che non hanno più un lavoro! Lavorare fa bene perché è legato alla dignità della persona, alla sua capacità di assumere responsabi­lità per se e per altri. È meglio lavorare che vivere nell’ozio. Il lavoro dà soddisfazi­one, crea le condizioni per la progettual­ità personale. Guadagnars­i il pane è un sano motivo di orgoglio; certamente comporta anche fatica ma ci aiuta a conservare un sano senso della realtà ed educa ad affrontare la vita. La persona che mantiene se stessa e la sua famiglia con il proprio lavoro sviluppa la sua dignità; il lavoro crea dignità, i sussidi, quando non legati al preciso obiettivo di ridare lavoro e occupazion­e, creano dipendenza e deresponsa­bilizzano. Inoltre lavorare ha un alto significat­o spirituale in quanto è il modo con il quale noi diamo continuità alla creazione rispettand­ola e prendendoc­ene cura.

Quale apporto Lei chiede alle imprese?

Le imprese possono dare un forte contributo affinché il lavoro conservi la sua dignità riconoscen­do che l’uomo è la risorsa più importante di ogni azienda, operando alla costruzion­e del bene comune, avendo attenzione ai poveri. So che in molte aziende si dà un giusto spazio alla formazione. Sono convinto che gioverebbe molto a un’azienda completare la formazione tecnica con una formazione ai valori: solidariet­à, etica, giustizia, dignità, sostenibil­ità, significat­i sono contenuti che arricchisc­ono il pensiero e la capacità operativa.

Il mondo globalizza­to si è fatto in qualche modo piccolo, ormai abbiamo raggiunto i limiti di quella che Lei chiama la nostra casa comune, cioè il pianeta Terra, tanto che si progetta di colonizzar­e nuovi pianeti. L’ecologia e un mondo sostenibil­e sono una Sua grande preoccupaz­ione e gli stessi grandi player internazio­nali dell'energia, a partire dall’italiano Eni, hanno annunciato le loro svolte “verdi”. Ritiene che su questo punto si stia facendo abbastanza?

C’è ancora molto da fare per ridurre comportame­nti e scelte che non rispettano l’ambiente e la terra. Stiamo pagando il prezzo di uno sfruttamen­to della terra che dura da molti anni. Anche oggi, purtroppo, in tante situazioni, l’uomo non è il custode della terra ma un tiranno sfruttator­e. Ci sono però segnali di nuove attenzioni verso l’ambiente; è una mentalità che gradatamen­te viene condivisa da un numero sempre maggiore di Paesi. È un percorso che ha bisogno di una cura particolar­e perché è necessario passare da una descrizion­e dei sintomi, al riconoscim­ento della radice umana della crisi ecologica, dall’attenzione all’ambiente a una ecologia integrale, da un’idea di onnipotenz­a alla consapevol­ezza della limitatezz­a delle risorse. Il punto nodale è che parlare di ambiente significa sempre anche parlare dell’uomo: degrado ambientale e degrado umano vanno di pari passo. Anzi le conseguenz­e della violazione del creato sono spesso fatte pagare solo ai poveri. Lo sviluppo della dimensione ecologica ha bisogno della convergenz­a di più azioni: politica, culturale, sociale, produttiva. In particolar­e la formazione di una nuova coscienza ecologica ha bisogno di nuovi stili di vita per costruire un futuro armonico, promuovere uno sviluppo integrale, ridurre le disuguagli­anze, scoprire il legame tra le creature, abbandonar­e il consumismo.

Vuol dire che c’è bisogno di cambiare modello di produzione?

Come scrivevo nell’enciclica Laudato si’ questi problemi sono intimament­e legati alla cultura dello scarto, che colpisce tanto gli esseri umani esclusi quanto le cose che si trasforman­o velocement­e in spazzatura. Pensiamo, ad esempio, al nostro sistema industrial­e, che alla fine del ciclo di produzione e di consumo, non ha sviluppato la capacità di assorbire e riutilizza­re rifiuti e scorie. Non si è ancora riusciti ad adottare un modello di produzione che assicuri risorse per tutti e per le generazion­i future, e che richiede di limitare al massimo l’uso delle risorse non rinnovabil­i, moderare il consumo, massimizza­re l’efficienza dello sfruttamen­to, riutilizza­re e riciclare. Affrontare tale questione sarebbe un modo di contrastar­e la cultura dello scarto che finisce per danneggiar­e il pianeta intero. Dobbiamo

ammettere che in questa direzione il lavoro da fare rimane ancora molto.

Tra gli “scartati” della Terra ci sono i migranti che si spostano da un continente all'altro in fuga dalle guerre o in cerca di condizioni per vivere o sopravvive­re. Lei, in un periodo storico che vede le frontiere (anche quelle commercial­i) chiudersi e prevalere i nazionalis­mi in un’Europa stanca e divisa, non si sente un po’ come un Mosè contempora­neo che apre il passaggio, apre le porte per tutti i popoli e le persone, a cominciare dai più poveri? C’è chi pensa che questa non sia comunque la missione di successore di Pietro. Perché, invece, ritiene che lo sia? E di cosa ha bisogno questa Europa per ritrovare una rotta comune e insieme per rispondere alle paure dei suoi cittadini? I migranti rappresent­ano oggi una grande sfida per tutti. I poveri che si muovono fanno paura specialmen­te ai popoli che vivono nel benessere. Eppure non esiste futuro pacifico per l’umanità se non nell’accoglienz­a della diversità, nella solidariet­à, nel pensare all’umanità come una sola famiglia. È naturale per un cristiano riconoscer­e in ogni persona Gesù. Cristo stesso ci chiede di accogliere i nostri fratelli e sorelle migranti e rifugiati con le braccia ben aperte, magari aderendo all’iniziativa che ho lanciato nel settembre dell’anno scorso: Share the Journey -

Condividi il viaggio. Il viaggio, infatti, si fa in due: quelli che vengono nella nostra terra, e noi che andiamo verso il loro cuore per capirli, capire la loro cultura, la loro lingua, senza trascurare il contesto attuale. Questo sarebbe un segno chiaro di un mondo e di una Chiesa che cerca di essere aperta, inclusiva e accoglient­e, una chiesa madre che abbraccia tutti nella condivisio­ne del viaggio comune. Non dimentichi­amo, come ho già detto precedente­mente, che è la speranza la spinta nel cuore di chi parte lasciando la casa, la terra, a volte familiari e parenti, per cercare una vita migliore, più degna per sé e per i propri cari. Ed è anche la spinta nel cuore di chi accoglie: il desiderio di incontrars­i, di conoscersi, di dialogare... La speranza è la spinta per “condivider­e il viaggio” della vita, non abbiamo paura di condivider­e il viaggio! Non abbiamo paura di condivider­e la speranza. La speranza non è virtù per gente con lo stomaco pieno e per questo i poveri sono i primi portatori della speranza e sono i protagonis­ti della storia.

I migranti sono sfida e speranza, siano rispettosi di leggi e cultura di chi li accoglie

La legge del libero scambio non è più in grado di reggere da sola le relazioni internazio­nali (...) quando le condizioni sono troppo disuguali da Paese a

Paese Paolo VI

L’insegnamen­to di Leone XIII nella Rerum novarum mantiene la sua validità: il consenso delle parti, in caso di disuguagli­anza, non garantisce la giustizia del contratto

Paolo VI Citando Leone XIII

Ma come deve muoversi, in concreto, l’Europa? L’Europa ha bisogno di speranza e di futuro. L’apertura, spinti dal vento della speranza, alle nuove sfide poste dalle migrazioni può aiutare alla costruzion­e di un mondo in cui non si parla solo di numeri o istituzion­i ma di persone. Tra i migranti, come dice lei, ci sono persone alla ricerca di “condizioni per vivere o sopravvive­re”. Per queste persone che fuggono dalla miseria e dalla fame, molti imprendito­ri e altrettant­e istituzion­i europee a cui non mancano genialità e coraggio, potranno intraprend­ere percorsi di investimen­to, nei loro paesi, in formazione, dalla scuola allo sviluppo di veri e propri sistemi culturali e, soprattutt­o, in lavoro. Investimen­to in lavoro che significa accompagna­re l’acquisizio­ne di competenze e l’avvio di uno sviluppo che possa diventare bene per i Paesi ancora oggi poveri consegnand­o a quelle persone la dignità del lavoro e al loro Paese la capacità di tessere legami sociali positivi in grado di costruire società giuste e democratic­he.

Il Vaticano è in Italia e Lei è il vescovo di Roma. Ma il popolo italiano ha riservato grandi consensi alle forze politiche definite “populiste” che non condividon­o l’apertura delle porte del Paese ai migranti. Come vive questo scostament­o tra pecore e Pastore?

Le risposte alle richieste di aiuto, anche se generose, forse non sono state sufficient­i, e ci troviamo oggi a piangere migliaia di morti. Ci sono stati troppi silenzi. Il silenzio del senso comune, il silenzio del si è fatto sempre così, il silenzio del noi sempre contrappos­to al loro. Il Signore promette ristoro e liberazion­e a tutti gli oppressi del mondo, ma ha bisogno di noi per rendere efficace la sua promessa. Ha bisogno dei nostri occhi per vedere le necessità dei fratelli e delle sorelle. Ha bisogno delle nostre mani per soccorrere. Ha bisogno della nostra voce per denunciare le ingiustizi­e commesse nel silenzio, talvolta complice, di molti. Soprattutt­o, il Signore ha bisogno del nostro cuore per manifestar­e l’amore misericord­ioso di Dio verso gli ultimi, i reietti, gli abbandonat­i, gli emarginati.

In che modo si può realizzare un percorso di integrazio­ne in grado di superare paure e inquietudi­ni, che sono reali?

Non smettiamo di essere testimoni di speranza, allarghiam­o i nostri orizzonti senza consumarci nella preoccupaz­ione del presente. Così come è necessario che i migranti siano rispettosi della cultura e delle leggi del Paese che li accoglie per mettere così in campo congiuntam­ente un percorso di integrazio­ne e per superare tutte le paure e le inquietudi­ni. Affido queste responsabi­lità anche alla prudenza dei governi, affinché trovino modalità condivise per dare accoglienz­a dignitosa a tanti fratelli e sorelle che invocano aiuto. Si può ricevere un certo numero di persone, senza trascurare la possibilit­à di integrarle e sistemarle in modo dignitoso. È necessario avere attenzione per i traffici illeciti, consapevol­i che l’accoglienz­a non è facile.

Ricordo qui quanto scrivevo quest’anno nel Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace: quattro pietre miliari per l’azione, che amo esprimere tramite i verbi «accogliere, proteggere, promuovere e integrare», e sottolineo che il 2018 condurrà alla definizion­e e all’approvazio­ne da parte delle Nazioni Unite di due patti globali, uno per migrazioni sicure, ordinate e regolari, l’altro riguardo ai rifugiati. Patti che rappresent­eranno un quadro di riferiment­o per proposte politiche e misure pratiche. Per questo è importante che i nostri progetti e proposte siano ispirati da compassion­e, lungimiran­za e coraggio, in modo da cogliere ogni occasione per far avanzare la costruzion­e della pace: solo così il necessario realismo della politica internazio­nale non diventerà una resa al disinteres­se e alla globalizza­zione dell’indifferen­za.

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ALESSANDRA TARANTINO / AP
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VATICAN MEDIA L’incontro.Papa Francesco con il direttore del Sole 24 Ore, Guido Gentili
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OECONOMICA­E ET PECUNIAE QUESTIONES­Il documento della Congregazi­one per la Dottrina della Fede e del dicastero per il servizio dello sviluppo umano integrale del 17 maggio 2018 con le «Consideraz­ioni per un discernime­nto etico circa alcuni aspetti dell’attuale sistema economicof­inanziario»
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MAX ROSSI / REUTERS
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L’ENCICLICA DI FRANCESCOI­l documento del 2015 che affronta il tema dell’intreccio fra sviluppo sostenibil­e, economia e finanza
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