«CHI NON HA VISSUTO GUERRE E FAME, SE PUÒ, DEVE RESTITUIRE QUALCOSA
A tu per tu Staffan de Mistura
«Qui non posso toccare nulla. Neppure appendere dei quadri». Per essere un diplomatico di lungo corso con una mission impossible tra le mani, Staffan de Mistura è un uomo invidiabilmente cosciente dei propri limiti. L’Inviato speciale delle Nazioni Unite per la Siria è appena entrato nel suo ufficio nel Palais
des Nations di Ginevra e si sta scusando per il caldo. I vincoli
delle Belle arti su questo edificio degli anni Trenta impediscono di installare un impianto di condizionamento e, nel caso specifico della stanza occupata da de Mistura, una bella boiserie color miele fa il resto.
In cerca di un po’ d’aria, ci sediamo davanti a una grande finestra spalancata che incornicia il lago Lemàno e le Prealpi dello Sciablese. Sono passate quattro estati da quando questo diplomatico italo-svedese, che oggi ha 71 anni «ampiamente compiuti», ricevette una chiamata, alle 3 del mattino, dall’allora Segretario generale dell’Onu Ban Kimoon. «Mi sveglio, rispondo e mi viene detto: “L’inviato speciale per la Siria ha rinunciato. C’è la percezione che l’Onu ha fallito e che non c’è nulla da fare”».
Ma l’appello cade nel vuoto. Dopo oltre quattro decenni di servizio e una ventina di missioni in aree di crisi, un conflitto come quello siriano non è esattamente in cima alle priorità di de Mistura. Anche perché sta facendo tutt’altro: è tornato a Capri, dove dirige Villa san Michele, una fondazione culturale nata dall’amore del suo Paese-natale, la Svezia, per quello che lo ha adottato, l’Italia. E in più vorrebbe iniziare a scrivere le sue memorie. Ma Ban non si arrende. «Richiamò, dicendo che dei cinque candidati io ero l’unico che non aveva ricevuto una “pallina nera” dai membri del Consiglio di sicurezza. Dissi nuovamente di no e poi non riuscii a dormire. Ne parlai con mia moglie. Quindi alle 5 e mezza chiamai e dissi: “Sono pronto”».
Nonostante i quattro complicati anni trascorsi da allora, l’uomo seduto di fronte a me ha conservato l’aria di chi non sfigurerebbe sotto un pergolato caprese: l’austera divisa scura dei vertici diplomatici con cui viene solitamente ritratto dai fotografi oggi è rimasta nell’armadio. Al suo posto ci sono un completo color crema, una camicia bianca e una vivace cravatta tricot a righe orizzontali. Al polso un Rolex d’acciaio con il vetro graffiato e un cinturino di tessuto molto sportivo. Un “Nato
strap”, nel gergo degli appassionati.
Quando gli chiedo perché abbia barattato un lavoro da sogno in uno dei luoghi più belli del mondo con quello che il Guardian ha definito «the toughest job in the world», de Mistura parte da lontano. Dal sogno infantile di fare il pompiere e quello giovanile di essere medico; dalle lezioni paterne e quelle dei Gesuiti del Massimo di Roma per giungere a questa sintesi: «Se hai il privilegio di avere avuto un’educazione; o di avere vissuto in un Paese senza guerra o fame, se puoi, devi restituire qualcosa».
Un insegnamento su cui, a soli 17 anni e mezzo, si sarebbe innestato un «sano sdegno», come lo chiama de Mistura. «Ero un liceale – racconta – e mio padre, un istriano dalmata che durante la Seconda guerra mondiale era dovuto fuggire da Sebenico, incontrò per caso a una cena un uomo straordinario, siriano guarda caso, che lavorava al World Food Programme. Parlarono, e a un certo punto gli disse: “Pago assicurazione e viaggio, ma vorrei che mio figlio venisse con lei a Cipro a vedere cosa vuol dire lavorare per la pace”. Io avevo già la fidanzatina e volevo fare delle belle vacanze a Capri. Invece mi fu offerta in maniera perentoria questa occasione e, non molto contento, andai. La situazione tra turchi e greci era molto conflittuale e vidi una cosa che ha segnato la mia vita: un bambino di 8 anni colpito da un cecchino mentre stava giocando a pallone sulla Linea verde. Uno schiocco, un foro al collo e poi per terra, morto. Non avevo mai visto nessuno morire, neanche mio nonno… rimasi outraged. E lo sdegno divenne un fuoco».
Mezzo secolo più tardi, quella fiamma non sembra essersi estinta. E, visto il finale di partita che si sta delineando in Siria, è un bene. Benché la guerra sia «quasi finita, in termini territoriali» con la vittoria del regime di Bashar al-Assad, de Mistura non fa previsioni su questo conflitto «orribile e crudelissimo, dove non ci sono angeli». Poi, scendendo nel dettaglio, spiega che «il futuro della regione del nord est coordinata dalle forze curdo-arabe con il sostegno degli Stati Uniti non è ancora chiaro» e che a Idlib «la situazione è particolarmente preoccupante: 3,9 milioni di civili, tra cui 1 milione di bambini, rischiano di trovarsi schiacciati tra l’avanzata dell’esercito siriano e 30mila combattenti, tra cui 10mila terroristi, in parte stranieri».
Ma quanta fiducia può riporre l’Onu in un leader come Assad che era spietato con i propri oppositori ben prima che questi imbracciassero le armi? De Mistura sceglie con cura le parole. «Quello siriano – spiega – è un governo convinto di aver vinto. Ed è convinto di aver vinto contro il terrorismo. Quindi ha bisogno di molto… convincimento da parte di chi lo ha aiutato, in particolare i russi e gli iraniani, per capire che per vincere la pace servono concessioni concrete sulla costituzione, sulle elezioni, sulle garanzie ai 5,9 milioni di rifugiati che saranno i primi a chiedere a noi dell’Onu se possiamo dare il timbro di credibilità alle condizioni di sicurezza, di giustizia, di non punizione e partecipazione politica. L’Onu ha un piano preciso per facilitarlo ed è su questo che sto impostando la discussione».
Una sfida titanica che giungerà al termine di quella che già oggi de Mistura definisce «la crisi più complessa che abbia mai affrontato: 11 Paesi coinvolti, tra cui tutte le potenze regionali (e quelle principali), con agende diverse in competizione (anche tra alleati, come Turchia e Arabia Saudita), con tensioni tra mondo sciita e sunnita e tra Russia e Stati Uniti, con un governo forte che ha una posizione molto dura e in più Daesh (l’acronimo arabo dell’Isis, ndr)».
Una ragnatela di rivalità così vasta e fitta che, nonostante la diplomazia stia lavorando «giorno e notte per evitare che si ripetano gli orrori del passato», c’è il rischio di «una vera catastrofe umanitaria, proprio alla fine della guerra e una delle chiavi per scongiurarla è nelle mani dei presidenti di Turchia e Russia». Con una posta tanto alta (e giocatori del genere) ci sta che la nostra conversazione sia punteggiata di comprensibili, ma non per questo meno frustranti, “non detti”. Cadono nel vuoto non solo le domande più dirette su Russia, Arabia Saudita e Iran. Neppure chiedere quali lezioni possiamo trarre da questa guerra ci porta lontano. «Questo è il tipo di quesito che vorrei mi facesse a fine missione», (non) risponde de Mistura.
La prudenza è comprensibile. Dopo aver “bruciato” in 28 mesi due pesi massimi della diplomazia come l’ex Segretario generale dell’Onu Kofi Annan (recentemente scomparso) e l’ex ministro degli Esteri algerino Lakhdar Brahimi, la crisi siriana ha già messo sufficientemente in difficoltà anche de Mistura: accusato di aver formato una squadra di persone fidate, ma non abbastanza competenti; frustrato nel suo tentativo di fare di Aleppo un catalizzatore per cambiare il corso del conflitto; ignorato quando propose una tregua per avviare una campagna vaccinale, uno stratagemma che aveva già usato con successo in America Centrale, Bosnia e Sudan, ma che in Siria fallì: «Era entrato nei manuali – spiega – e anche i “cattivi” leggono i manuali».
Forse non è un caso che in passato de Mistura abbia usato delle banali vaccinazioni per spingere gli attori di un conflitto a deporre le armi e parlarsi. Non solo fare il medico è stato il suo sogno da ragazzo, ma ancora oggi il diplomatico italo-svedese non trova metafora più calzante di quella clinica per spiegare come si convive con le frustrazioni di una
mission impossible e i sensi di colpa di chi ha il privilegio di entrare e uscire da un’area di crisi che imprigiona milioni di altri esseri umani. «Ci sono conflitti – spiega – nei quali effettivamente si vede che non c’è una soluzione giusta. Come ci sono delle malattie che non possono essere curate con quello che sappiamo oggi. E cosa si fa in quel caso? Si abbandona il malato o si cerca di mantenerlo in vita e di ridurre al minimo il dolore, sperando, volendo credere e facendogli credere che forse domani potrebbe esserci la cura?».
Un idealista con i piedi ben piantati per terra, de Mistura è convinto che il dopo-11 settembre debba insegnarci almeno un paio di cose. «La prima è che è ovvio che dobbiamo rinunciare a imporre sistemi politici e filosofici ad altri Paesi: devono arrivarci e crederci da soli. La seconda è che per evitare Daesh o al Quaeda serve inclusione», ovvero la partecipazione al processo politico di tutte le comunità, al di là delle distinzioni etniche e confessionali. «Senza, in Iraq, abbiamo avuto Mosul e Abu Bakr al-Baghdadi. Senza, in Siria, la stabilizzazione della pace sarà molto complicata».
Prima di lasciarci, confesso a de Mistura il mio stupore davanti alla lunghezza del suo curriculum. Lui mi spiega, sorridendo, che nella vita ha partecipato sì a tantissime missioni, ma che molte sono state brevi. «Facevo il pompiere», dice. Giusto. E ha mai rifiutato un incarico? «Mai. Ho tentato solo con quest’ultimo, ma non è andata».
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«NON POSSIAMO
IMPORRE SISTEMI POLITICI AD ALTRI PAESI.
CI DEVONO ARRIVARE LORO»