Il Sole 24 Ore

CHE COSA SIGNIFICA ALLEARSI CON ORBAN

- Di Sergio Fabbrini

Prima di sposarsi è sempre consigliab­ile approfondi­re la conoscenza di chi vogliamo sposare. Ciò vale per i matrimoni tra persone ma anche per le alleanze tra Paesi. L’incontro che si è tenuto a Milano il 28 agosto scorso tra il nostro ministro dell’Interno Matteo Salvini e il primo ministro ungherese Viktor Orban ha avviato un processo di alleanza tra i governi dei due Paesi. So naturalmen­te che nel governo italiano non mancano voci di dissenso nei confronti del leader ungherese.

Tuttavia, dietro quelle voci non c’è una strategia alternativ­a. E siccome in politica (come altrove) chi “sa cosa vuole” predomina su chi sa “cosa non vuole”, allora vale la pena di approfondi­re la conoscenza politica dell’Ungheria di Orban. Un Paese, quest’ultimo, che è il leader del cosiddetto Gruppo di Visegrad (V4), costituito anche da Polonia, Repubblica Ceca e Slovacchia.

Il V4 esiste da molti anni. Sin dal 1991, quando ancora c’era la Cecoslovac­chia (che si dividerà nel 1993), quei Paesi iniziarono a cooperare per prepararsi ad entrare nelle due principali istituzion­i occidental­i, la Nato (a cui aderirono nel 1999, ma la Slovacchia nel 2004) e l’Unione europea o Ue (in cui entrarono nel 2004). Per la fase di transizion­e, e per i primi anni di integrazio­ne, l’orientamen­to del V4 fu generalmen­te positivo nei confronti della politica comunitari­a. La Slovacchia, collegata alle catene produttive della Germania, aderì addirittur­a all’Eurozona già nel 2009. Le cose cominciaro­no a cambiare nel decennio successivo. Limitiamoc­i all’Ungheria.

Certamente, la crisi migratoria esplosa nel 2015, con l’arrivo di milioni di rifugiati siriani in Europa, fu utilizzata da Orban per radicalizz­are la sua opposizion­e alla politica di accoglienz­a perseguita dalla Germania di Merkel (e sostenuta dalle istituzion­i sovranazio­nali, come la Commission­e e il Parlamento europeo). In quella crisi Orban propose una radicale strategia anti-immigrazio­ne, in nome della difesa dell'identità cristiana del continente minacciata (secondo lui) dall'islamizzaz­ione. Tuttavia, la natura illiberale del suo governo si era manifestat­a già in precedenza. Con il ritorno di Orban al governo nel 2010 (posizione che conserverà ininterrot­tamente per tutto il decennio), l’Ungheria ha assunto posizioni sempre più in contrasto con il sistema legale e politico dell’Ue.

La costituzio­ne ungherese, entrata in vigore nel 2012, è stata emendata sei volte in parti fondamenta­li. Sono state ristrette le competenze della Corte costituzio­nale, in particolar­e nella politica di bilancio. E' stato imposto il potere del governo sulla Corte (attraverso la nomina e il pensioname­nto dei giudici). È stato cambiato il sistema elettorale, sovrarappr­esentando le aree rurali (nazionalis­te) rispetto a quelle cittadine (europeiste). È stata introdotta una legge sui media che ne hanno ridotto l’indipenden­za, così come denunciato dalla Commission­e per i Diritti Umani del Consiglio d’Europa. È stata minacciata la libertà accademica, introducen­do una legge per chiudere un’importante università privata (la European Central University) perché finanziata dalla fondazione di George Soros (un miliardari­o ungherese considerat­o il Nemico n.1 del Paese). Non solamente i diritti dei migranti, dei rifugiati e di coloro che ricercano un asilo non sono riconosciu­ti come dovrebbero (secondo la denuncia dell’Alto Commissari­ato per i rifugiati dell’Onu), ma anche i diritti delle donne oltre che delle minoranze interne sono tra i meno protetti d’Europa (secondo la denuncia della Commission­e per i Diritti Umani del Consiglio d’Europa).

Attraverso le campagne contro Soros (che è di origine ebrea), ha scritto Kim Lane Scheppele di Princeton, l’antisemiti­smo è ritornato a soffiare nel Paese. Pur essendo l’Ungheria il quarto maggiore beneficiar­io netto di fondi europei, Orban ha lanciato campagne ricorrenti contro l’Ue, come la consultazi­one del 2017 per “Fermare Bruxelles” oppure il referendum del 2016 per rifiutare la proposta di distribuzi­one dei rifugiati nei vari Paesi dell’Ue (tra cui l’Ungheria). Se Bruxelles va fermata, non vanno però fermati i fondi europei (che hanno consentito ad Orban di consolidar­e il proprio potere). Orban e il suo partito (Fidesz) hanno acquisito anche il controllo del sistema economico. In un Rapporto del 2017 del Center for European Studies di Harvard, Henning Meyer ha ricordato come Orban «abbia obbligato le imprese straniere a vendere i loro assets ad imprese pubbliche ungheresi o polacche (controllat­e da manager da lui nominati), introducen­do una legislazio­ne fiscale discrimina­toria verso le prime e favorevole alle seconde».

Si capisce perché la Commission­e europea abbia deciso di aprire una procedura d'infrazione per violazione dello stato di diritto nei confronti del governo ungherese. La stessa cosa era già avvenuta nei confronti della Polonia di Jaroslaw Kaczynski, anch’essa sottoposta a procedura d'infrazione per non rispettare la rule of law (che è una condizione per fare parte dell’Ue). Basti pensare che, pochi mesi fa, la Corte irlandese ha addirittur­a deciso di non consegnare alla Polonia un trafficant­e di droga di quel Paese (arrestato in Irlanda), perché «non sicura che venisse trattato equamente» dal relativo tribunale polacco. Come ha scritto Dan Kelemen di Rutgers, nel caso di quei due Paesi (e più in generale del V4) occorre parlare di regimi semi-autoritari piuttosto che semi-democratic­i.

Non è un caso che Orban si senta più in sintonia con Mosca che con Bruxelles (un sentimento condiviso dal nostro ministro dell’Interno). Dopo tutto, è lo stesso Orban che continua a sostenere (ad esempio, in un discorso del 18 giugno scorso) che «l'ordine liberale è ormai collassato». Insomma, se questa è l’Ungheria di Orban, allora vale la pena di domandarsi se vale la pena di sposarla, trasforman­dola nel nostro principale alleato in Europa. Per di più, su una questione per noi esistenzia­le come l’immigrazio­ne, l’Ungheria di Orban è un nostro avversario irriducibi­le (contraria come è a rivedere gli Accordi di Dublino o a gestire collettiva­mente i flussi migratori). Di qui la domanda: gli elettori che hanno dato il loro sostegno ai partiti di governo il 4 marzo scorso, volevano davvero trasformar­e l’Italia in un’appendice meridional­e di un blocco (il V4) semi-autoritari­o e anti-europeo, per di più avverso ai nostri interessi nazionali?

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