Il Rinascimento? È la Belle époque
Sedici domande di storia rivolte ad adulti, molti dei quali laureati, rivelano un’ignoranza clamorosa anche sui temi dell’attualità politica. Segno dell’esito disastroso dell’accanimento riformistico sulla scuola
Il mondo contemporaneo offre quotidiani esempi della deriva autoritaria di molte presunte democrazie, in grado di utilizzare un consenso di massa largamente manipolato per infrangere le regole che costituiscono l’anima stessa della democrazia, insieme con i cosiddetti corpi intermedi (partiti, sindacati, associazioni ecc.) che dovrebbero consentirne l’esercizio e con le classi politiche che dovrebbero costituire l’esito dei loro processi di selezione. Esattamente il contrario di quanto succede oggi, insomma, laddove alla suprema istanza della volontà popolare si attribuisce il diritto di infrangere le regole, i corpi intermedi sono fortemente indeboliti e talora in via di estinzione,
le élites vengono ridicolizzate come frutto parassitario del privilegio sociale e dell’arroganza culturale, e riemergono pulsioni autoritarie intorno a leader più o
meno carismatici.
Molte sono le ragioni di questo processo, su alcune delle quali aiuta a riflettere questo libro, ricco di sorprese, sulla conoscenza della storia da parte degli adulti italiani, non foss’altro perché la storia è il sapere più vicino alla politica, per non dire costitutivo di essa e delle sue passioni, fin da quando Tucidide rifletteva sullo scontro tra Atene e Sparta e Machiavelli scriveva il Principe dopo essersi immerso nella lettura degli antichi. Vi sono pubblicate 109 interviste costruite sulla base di un questionario volto ad accertare le competenze storiche di un campione geograficamente limitato a Piemonte e Valle d’Aosta, suddiviso paritariamente fra uomini e donne, articolato in differenti fasce decennali d’età (da 2029 anni fino a oltre 79) e in diversi livelli di titolo di studio, anche se spostato nettamente verso l’alto, come dimostra il cospicuo numero dei laureati. Tutt’altro che banalmente scolastiche sono le 16 domande cui tale campione è stato chiamato a rispondere: solo due si riferiscono molto genericamente a storie lontane nel tempo, sollecitando i ricordi scolastici degli intervistati sull’Impero romano e il Rinascimento, mentre le altre riguardano in massima parte tempi più vicini e investono temi quali il Risorgimento e la Resistenza, Mussolini e il fascismo, il mito degli “italiani brava gente”, l’emigrazione, lo sviluppo economico, la diffusione del telefono e degli elettrodomestici, la II guerra mondiale e la guerra fredda, la Costituzione, i diritti delle donne.
Ne esce il quadro di un’ignoranza a dir poco sconcertante anche su temi più prossimi all’oggi e all’attualità politica. Se si pensa che l’inchiesta è stata svolta in prossimità di un referendum costituzionale – osserva giustamente Allegra – ci si chiede su che cosa abbiano votato gli italiani (nonostante l’informazione giornalistica e televisiva) visto che la maggior parte di essi ignora pressoché tutto della Costituzione, la colloca in una cronologia oltremodo vaga e se ne ricorda qualcosa è solo l’articolo 18, confondendolo però con l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori a suo tempo oggetto di aspri dibattiti politici.
Certo, ci si potrebbe limitare a qualche sorriso nel leggere le ineffabili castronerie di cui queste pagine sono costellate: l’Impero romano che giunge fino al
l’età comunale e di cui furono in
signi rappresentanti anche Alessandro Magno e Carlo Magno; il Rinascimento che coincide con la “Belle époque”; il re Sole come sovrano di Napoli al momento dell’unità d’Italia (avvenuta secondo alcuni nel 1946 o nel 1948); le colonie italiane nel Corno d’Africa, che comprendevano quindi anche l’Algeria e il Congo, e per qualcuno anche la Tunisia; il mito di Mussolini autore di tante buone cose se non fosse stato travolto dall’alleanza con Hitler; le leggi razziali emanate nel ’38 contro i musulmani; la II guerra mondiale in cui l’Italia figura tra i vincitori e la Russia tra i vinti; fino a un presunto governo Togliatti nel dopoguerra. C’è solo l’imbarazzo della scelta.
Al di là delle innumerevoli e talora scandalose baggianate degli intervistati (tra i quali compare anche qualche eccezione, un anziano generale a riposo, per esempio, o un barista), il dato più significativo è rappresentato a mio avviso dal fatto che, con le dovute eccezioni, la fascia di età più analfabeta in campo storico – ma è lecito presumere che nelle altre discipline le cose non cambino molto – è quella più giovane, e dunque più vicina alle memorie
scolastiche, anche se dotata di una bella laurea magistrale in discipline umanistiche, così come accade alla laureata in Scienze politiche che non ha la più pallida idea di che cosa sia la
Costituzione italiana. Il che fa ov
viamente riflettere sugli esiti a dir poco disastrosi dell’accanimento riformistico di cui la scuola italiana è stata fatta oggetto negli ultimi decenni, senza distinzioni politiche, a cominciare da Luigi Berlinguer, l’innocente demagogo animato delle migliori intenzioni che annunciava il nuovo diritto al successo formativo, dall’invasione di psicologi e pedagogisti a tutto interessati meno che al merito e alle conoscenze, fino alla Moratti, alla Gelmini, alla Fedeli, mentre il tracollo dell’Università, anch’esso avviato dal sullodato Berlinguer, non può non riflettersi anche sulla formazione degli insegnanti, dando vita a un ciclo perverso. Sono studenti universitari e laureati, per fare un solo esempio, quelli che datano l’unità d’Italia al 1601 o al 1950, e la definiscono come riunificazione di diversi imperi, tra cui la Sicilia, la Savoia e la Borgogna, o ignorano dati elementari sulla II Guerra mondiale e la guerra fredda, a dispetto della normativa berlingueriana che imponeva di dedicare al solo Novecento l’ultimo anno di ogni ciclo di studi. Né più né meno che un disastro, insomma.
Si continua cioè a percorrere la strada di quel drammatico analfabetismo di ritorno già denunciato molti anni fa da Tullio De Mauro, che mette l’Italia al fondo delle classifiche europee (e non solo), mentre anche sul terreno della ricerca si continuano a esportare i migliori talenti. Eppure in passato la scuola italiana era stata capace di offrire un importante canale di promozione sociale fondato sul merito e aveva contribuito in maniera molto significativa alla formazione delle classi dirigenti di questo Paese. Con il che il discorso ritorna alle élites, e quindi anche alla selezione di un ceto politico in grado di affrontare i problemi generali con competenza e consapevolezza della loro complessità: il che, tra l’altro (sia detto sottovoce), dovrebbe comportare anche una qualche conoscenza delle loro radici storiche.