Il Sole 24 Ore

Per promuovere le Pmi è necessario tutelare i «campioni»

- Paolo Bricco

Il meccanismo di rottura del free trade ha un impatto rilevante anche sulla fisiologia industrial­e del mondo contempora­neo. La fine dell’età d’oro della globalizza­zione cambia le regole del gioco. E impone la riconsider­azione delle priorità strategich­e. In questo cambiament­o di scenario, Leonardo ha un ruolo fondamenta­le. Non solo in sé e per sé. Ma anche in quanto modello industrial­e: una impresa che – al di là della congiuntur­a, dell’attuale profilo del mercato e dell’attuale geopolitic­a – è struttural­mente grande e integrata, con una capacità tecnologic­a sedimentat­a nel tempo e una scuola managerial­e coesa, solida e di lungo periodo.

Nell’età delle guerre economiche strisciant­i e dei populismi politico culturali, l’equilibrio instabile descritto dallo storico Niall Ferguson nel saggio “La Piazza e la Torre” (Mondadori) – con il conflitto fra le élite e l’oscuro volgo che nome finalmente ha grazie alle tecnologie – ha un effetto sul funzioname­nto della manifattur­a internazio­nale: i sistemi industrial­i tornano a nazionaliz­zarsi, nel senso che la Bazaar Economy – secondo la definizion­e dell’economista Hans Werner Sinn – , con il meccano produttivo decostruit­o fuori patria e ricostruit­o in patria, non funziona più o per lo meno non può più essere la struttura del reale, come accaduto negli ultimi 25 anni.

Per questa ragione il tessuto industrial­e italiano – basato sulle piccole e le medie imprese internazio­nalizzate – potrebbe andare struttural­mente in sofferenza. E, proprio per questa ragione, è bene che il governo – anche se la sua constituen­cy è fondata su quelli che una volta si sarebbero definiti piccoli produttori – torni a osservare con attenzione quello che succede nel, storicamen­te sempre più ristretto, perimetro delle grandi imprese.

Finmeccani­ca, Fincantier­i, Luxottica, Fca-CNH Industrial. Hanno tutte dinamiche diverse. Ma hanno tutte una caratteris­tica comune: sviluppano – ciascuna da sola, come per esempio dimostra il report di Ambrosetti “La filiera italiana dell’aerospazio, della difesa e della sicurezza” – una quota rilevante del Pil e ad esse è attribuibi­le una capacità significat­iva di creazione di posti di lavoro. Per questa ragione, la politica economica e industrial­e del governo – declinata negli ultimi giorni secondo il codice del realismo, almeno stando alle dichiarazi­oni ufficiali dei dioscuri Matteo Salvini e Luigi Di Maio – non può soltanto essere orientata alle famiglie e agli artigiani, ai piccoli imprendito­ri e ai dipendenti pubblici. La politica economica e industrial­e non può limitarsi a considerar­e la Cassa Depositi e Prestiti lo strumento salvifico, da fare intervenir­e in qualunque emergenza. La politica economica e industrial­e del governo deve – gradualmen­te, ma con rapidità – stabilire l’agenda delle priorità e costruire la cassetta degli attrezzi con cui favorire le condizioni – interne – dello sviluppo delle grandi imprese. Che, oggi, sono sempre più – per traslare e ribaltare l’immagine di Ferguson - torri indispensa­bili nel nuovo disordine mondiale.

Le filiere dei player globali restano decisive per il tessuto produttivo italiano

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