Per promuovere le Pmi è necessario tutelare i «campioni»
Il meccanismo di rottura del free trade ha un impatto rilevante anche sulla fisiologia industriale del mondo contemporaneo. La fine dell’età d’oro della globalizzazione cambia le regole del gioco. E impone la riconsiderazione delle priorità strategiche. In questo cambiamento di scenario, Leonardo ha un ruolo fondamentale. Non solo in sé e per sé. Ma anche in quanto modello industriale: una impresa che – al di là della congiuntura, dell’attuale profilo del mercato e dell’attuale geopolitica – è strutturalmente grande e integrata, con una capacità tecnologica sedimentata nel tempo e una scuola manageriale coesa, solida e di lungo periodo.
Nell’età delle guerre economiche striscianti e dei populismi politico culturali, l’equilibrio instabile descritto dallo storico Niall Ferguson nel saggio “La Piazza e la Torre” (Mondadori) – con il conflitto fra le élite e l’oscuro volgo che nome finalmente ha grazie alle tecnologie – ha un effetto sul funzionamento della manifattura internazionale: i sistemi industriali tornano a nazionalizzarsi, nel senso che la Bazaar Economy – secondo la definizione dell’economista Hans Werner Sinn – , con il meccano produttivo decostruito fuori patria e ricostruito in patria, non funziona più o per lo meno non può più essere la struttura del reale, come accaduto negli ultimi 25 anni.
Per questa ragione il tessuto industriale italiano – basato sulle piccole e le medie imprese internazionalizzate – potrebbe andare strutturalmente in sofferenza. E, proprio per questa ragione, è bene che il governo – anche se la sua constituency è fondata su quelli che una volta si sarebbero definiti piccoli produttori – torni a osservare con attenzione quello che succede nel, storicamente sempre più ristretto, perimetro delle grandi imprese.
Finmeccanica, Fincantieri, Luxottica, Fca-CNH Industrial. Hanno tutte dinamiche diverse. Ma hanno tutte una caratteristica comune: sviluppano – ciascuna da sola, come per esempio dimostra il report di Ambrosetti “La filiera italiana dell’aerospazio, della difesa e della sicurezza” – una quota rilevante del Pil e ad esse è attribuibile una capacità significativa di creazione di posti di lavoro. Per questa ragione, la politica economica e industriale del governo – declinata negli ultimi giorni secondo il codice del realismo, almeno stando alle dichiarazioni ufficiali dei dioscuri Matteo Salvini e Luigi Di Maio – non può soltanto essere orientata alle famiglie e agli artigiani, ai piccoli imprenditori e ai dipendenti pubblici. La politica economica e industriale non può limitarsi a considerare la Cassa Depositi e Prestiti lo strumento salvifico, da fare intervenire in qualunque emergenza. La politica economica e industriale del governo deve – gradualmente, ma con rapidità – stabilire l’agenda delle priorità e costruire la cassetta degli attrezzi con cui favorire le condizioni – interne – dello sviluppo delle grandi imprese. Che, oggi, sono sempre più – per traslare e ribaltare l’immagine di Ferguson - torri indispensabili nel nuovo disordine mondiale.
Le filiere dei player globali restano decisive per il tessuto produttivo italiano