L’infrastruttura deve fare i conti con la capacità di anticipare il futuro
Iponti, specialmente quelli cittadini, assumono un valore iconico così forte da diventare talvolta simbolo stesso della città. Il ponte di Brooklyn, il Golden Gate di San Francisco, il ponte di Londra, il ponte di Rialto di Firenze, il ponte Vecchio di Firenze, solo per citarne alcuni, sono opere note in tutto il mondo. E talvolta assumono un valore culturale che travalica il valore ingegneristico o economico dell’opera, come il ponte di Istanbul che unisce l’Europa all’Asia.
I ponti sono, data la loro complessità, opere che affascinano l’immaginario umano e spesso diventano rappresentativi dell’idea stessa di progresso. Il dramma del Ponte Morandi di Genova ha scatenato un dibattito in cui molti si sono improvvisati ingegneri, giuristi, esperti di protezione civile. Abbiamo sentito in queste settimane “tutto e il contrario di tutto”. Ma c’è una prospettiva che, come spesso accade nel nostro Paese, è rimasta in ombra e che invece assume un’importanza cruciale quando si parla di infrastrutture e si vogliono rivedere gli accordi con cui lo Stato e i privati gestiscono le infrastrutture.
Infatti, i ponti, come le altre infrastrutture, vanno immaginati in funzione del tipo di futuro che pensiamo si materializzerà. Ma se lo Stato non è in grado di prevedere il futuro, non solo l’infrastruttura si rivelerà rapidamente obsoleta in termini di utilità sociale, ma è anche probabile che si sottostimino gli investimenti necessari per mantenerla adeguata, come accade sistematicamente in Italia, data la scarsa attenzione prestata alla manutenzione (questo vale anche per la gestione dei beni privati, come le nostre abitazioni).
Singapore ha recentemente annunciato di voler diventare il primo paese al mondo in cui circoleranno solo automobili a guida autonoma. Si prevede, per questo, una netta riduzione del numero di automobili in circolazione, in quanto il car-sharing di auto a guida autonoma diventerà molto diffuso. Dato questo “futuro” atteso, si sono posti il problema di cosa fare dei garage che verranno costruiti nei prossimi anni, molti dei quali diventeranno inutili una volta completata la transizione alle auto a guida autonoma, e hanno deciso di aumentare fin d’ora l’altezza minima dei garage in modo da assicurarne il riutilizzo per altre finalità.
Fantascienza? No, corretta programmazione. A chi si occupa di “futuro” una tale decisione non appare sorprendente, visto che da anni il governo di Singapore si è dotato di una struttura di alto livello che ha il compito di scrutare il futuro e aiutare le autorità a incorporare nelle proprie decisioni le previsioni su ciò che, presumibilmente, accadrà. La stessa attitudine si trova negli Emirati Arabi Uniti, al punto tale che Dubai ha anche costruito un “museo del futuro”, termine che rappresenta un evidente ossimoro, e si presenta nel mondo come “lo stato del futuro” (anche il governo svedese ha avuto la “ministra del futuro”, il cui compito era quello di valutare preventivamente tutti gli atti del governo rispetto all’impatto che essi avrebbero avuto sul futuro del paese, ma è durata poco).
Questa capacità di immaginare il futuro che ci attende diventa vitale non solo quando si programmano le infrastrutture, ma anche quando si negoziano concessioni che durano decine di anni, come quella relativa alle autostrade. Infatti, se è presumibile che l’auto del futuro sarà elettrica e a guida autonoma, che senso ha firmare una concessione in base alla quale nel 2038 il concessionario dovrà restituire allo Stato autostrade sì efficienti, ma nelle medesime condizioni di trent’anni prima? Se nel 2038 le autostrade non saranno state trasformate per tener conto dell’evoluzione degli autoveicoli (ad esempio dotandole di sensori per la guida autonoma o, come propongono alcuni, di linee elettriche interrate in grado di alimentare i motori elettrici di futura generazione e così risolvere il problema della loro ridotta autonomia), esse diventeranno monumenti del passato. E se le concessioni non avranno previsto come ripartire gli oneri della manutenzione straordinaria e degli investimenti necessari per tenere conto dell’innovazione tecnologica è presumibile che l’Italia rischi di trovarsi in ritardo su un futuro caratterizzato da crescenti non linearità.
Lo stesso discorso si potrebbe fare per il cambiamento climatico, le cui conseguenze, pur difficilmente prevedibili, vanno tenute in considerazione quando si programmano nuove infrastrutture o le manutenzioni straordinarie di quelle esistenti. Non a caso, la Commissione europea suggerisce di ridurre la durata delle concessioni, così da consentirne la rinegoziazione alla luce delle nuove condizioni esterne.
Capisco che in un Paese che non ha neanche un istituto pubblico per studiare il futuro ai fini di policy e che si fa sistematicamente dettare l’agenda del dibattito politico dalle “emergenze” invece che dalle cose “importanti” queste osservazioni potranno sembrare poco interessanti. Ma l’esperienza internazionale ci dimostra che chi non riesce ad anticipare il futuro è condannato ad inseguire le emergenze, con costi umani, economici e sociali insostenibili.
Portavoce di Alleanza Italiana per lo
Sviluppo Sostenibile (Asvis)