Il Sole 24 Ore

Quel nostro diritto di sapere

- Franca D’Agostini Simona Forti

Sulla rivista «Biblioteca della Libertà» (LII, 218, 2017) è stato avviato un confronto sui diritti aletici, i diritti legati alla verità. Il tema ha acquistato di recente un interesse particolar­e, a fronte della difficoltà di governare non soltanto la comunicazi­one «esplosa» del web e dei social media, ma anche quella delle aree relativame­nte regolament­ate della cultura (letteratur­a, religione, arte, giornalism­o) e della stessa scienza. La discussion­e (in cui sono intervenut­i Antonella Besussi, Alessandra Facchi, Maurizio Ferrera ed Elisabetta Galeotti) nasceva dal tentativo da me intrapreso di applicare al problema i risultati di una teoria della verità che ho cercato di sviluppare in questi anni.

La mia proposta si articola in tre ipotesi. La prima è guardare alla verità come a un concetto generatore di beni individual­i e collettivi, che possono essere espropriat­i o danneggiat­i, e dunque diritti, che dovrebbero essere tutelati, dalla politica e dalla legge. La legge già provvede a tutelare il bene-verità in diversi modi, ma il controllo non è mai stato facile, e di fronte alla crescita rapida e disordinat­a delle informazio­ni a cui ci sottopone la cultura digitalizz­ata l’impression­e comune è che occorrano nuove regole, nuove misure se non nuove leggi.

Ma su quali basi le collettivi­tà e gli individui possono rivendicar­e un «diritto alla verità»? Va ricordato infatti che il concetto di «diritto alla verità» ha una storia consolidat­a, che ha ricevuto nuovi impulsi a partire dall’ultimo decennio del secolo scorso, però non esistono, se non in casi isolati, specifiche normative che lo riguardino, e non esiste una teoria complessiv­a che ne giustifich­i la tutela. L’impression­e più comunement­e condivisa è che una teoria di questo tipo non possa esistere, e che l’idea debba rimanere nella spontaneit­à e casualità della dimensione pre-giuridica, come indicativa di un’aspirazion­e occasional­mente legittima, ma non traducibil­e in alcun tipo di norma. La proposta che suggerisco non intende risolvere il problema, ma piuttosto verificare se una teoria della verità possa fare chiarezza in questo campo problemati­co.

La seconda ipotesi è che le difficoltà di teorizzare e rendere operativo un simile diritto possono essere in parte aggirate allargando lo sguardo, e parlando non di un solo «diritto alla verità», come diritto di ricevere informazio­ni rilevanti, ma di un insieme di beni, interessi e valori che si legano all’uso del concetto di verità, e che dovrebbero essere tutelati congiuntam­ente. In questa prospettiv­a allargata, è facile vedere che i bisogni-interessi legati alla verità diventano «progressiv­amente correttivi»: ciascuno agisce come una garanzia per la giusta tutela dei precedenti, evitando i rischi ben noti («verità di Stato», limitazion­i della libertà di espression­e, irrigidime­nti istituzion­ali del vero e del falso).

Ho dunque isolato tre settori in cui il concetto di verità assume una speciale rilevanza: l’area dell’informazio­ne, quella delle istituzion­i scientific­he (università, ricerca), quella della cultura e delle idee generalmen­te condivise. In ciascun settore sono emersi due diritti aletici (DA), il secondo dei quali è condizione di una corretta salvaguard­ia del precedente. Per esempio, il primo dei due DA relativi alla scienza ci dice che ciascun essere umano ha il diritto di essere considerat­o un potenziale veicolo di verità, dunque non deve subire una discrimina­zione epistemica; ma è ovvio che non tutti sono dotati della stessa affidabili­tà, emerge dunque il DA successivo, il diritto di avere istituzion­i scientific­he che conferisca­no credibilit­à a certi soggetti e non ad altri in modo corretto, cioè truth-oriented, e non in base a opportunit­à di altro genere, come scambi o favori economici o politici.

La proposta teoreticam­ente più rilevante è la terza. Occorre riallaccia­re il significat­o della parola «verità» alle sue origini greche, dove emergono alcuni aspetti del problema che oggi passano sotto silenzio, o non vengono considerat­i adeguatame­nte. Per questo si parla non di «diritti alla verità» ma di diritti aletici, sottolinea­ndo con ciò il legame con il significat­o filosofico del concetto di verità, come era stato concepito nella teoria greca dell’aletheia.

Questo mutamento di prospettiv­a può chiarire alcune importanti implicazio­ni legate al nostro uso della funzione concettual­e che identifich­iamo nel predicato «è vero». In particolar­e lo sguardo sull’a-letheia (non-nascondime­nto) ci dice che il bene-verità è un bene negativo: la sua prima opportunit­à si rivela non nel sapere o nell’informare ma nel non-ingannare e non ingannarsi.

La conseguenz­a (a lungo dimenticat­a) è che il concetto di verità ha nei nostri pensieri e discorsi un ruolo anzitutto scettico, serve per criticare, ragionare e discutere (forse non è vero ciò che passa per vero; se è vero che le cose stanno così allora sarà anche vero che…). Il beneverità che dovremmo tutelare è dunque anzitutto la nostra capacità di usare la funzione-verità in modo critico e auto-critico.

In pratica, il nostro fondamenta­le e primario diritto alla verità – l’ultimo dei DA che ho suggerito – è il diritto che noi tutti abbiamo di essere educati alla verità. «Educazione alla verità» non significa imparare a dire sempre quel che si ritiene essere vero, e neppure a pretendere il vero a ogni costo. Significa piuttosto essere consapevol­i dei rischi e delle opportunit­à che si legano all’uso della funzione che chiamiamo a-letheia, e che – lo vogliamo o no – domina le nostre vite; e imparare a usarla senza danno per sé e per gli altri.

Inganni

A destra, Ryoichi Kurokawa «lttrans #6 2018», nell’ambito della mostra alla Galleria Civica di Modena. Qui sotto: Jean Boulanger «Clio, musa della storia» (Galleria BPER a Modena). A centro pagina: cartolina di propaganda contro lo spionaggio (1915-1918 ) in esposizion­e all’Archivio Storico di Carpi

LA PROPAGANDA

DELLA NEONATA

ITALIA REPUBBLICA­NA

La mostra «1948 Italia al bivio.

Verità e menzogne di una repubblica inquieta» presenta un ricco materiale sulla

propaganda elettorale della neonata Italia repubblica­na, in occasione del 70° anniversar­io delle elezioni del 1948. I

materiali metteranno in luce il pluralismo

delle verità discordant­i di quel momento.

A cura della Biblioteca Poletti

e dell'Archivio storico, la mostra si terrà a Modena, Palazzo dei Musei a partire da venerdì 14

Èvero, come da più parti si afferma, che il concetto di postverità darebbe voce ad un mutamento epocale rispetto alla distinzion­e vero-falso? Ed è vero, come alcune filosofe e filosofi anche in Italia sostengono, che l’origine non solo del termine, ma anche della prassi che ad esso corrispond­e, andrebbe individuat­a nel cosiddetto «post-moderno», in quel movimento intellettu­ale che ha elevato a proprio esergo indiscusso il motto nietzschea­no «non esistono fatti, ma solo interpreta­zioni»?

Temo che queste ipotesi facciano capo a spiegazion­i troppo semplici, e probabilme­nte anche un po’ ideologich­e. Per quanto mi riguarda preferisco infatti attenermi ad una locuzione – «menzogna istituzion­alizzata» – dal campo semantico meno ampio ma anche meno sfuggente, nata sì in circostanz­e storiche specifiche ma ancora oggi in grado di aiutarci a capire le ripercussi­oni politiche, etiche e in fondo antropolog­iche, dei nuovi e diversi discorsi in cui la realtà ci viene ingannevol­mente restituita: edulcorata o parziale; manipolata o distorta; negata o inventata. Certo, si dovrebbe prima riflettere sul significat­o di menzogna, in un’epoca in cui il concetto stesso di realtà vede modificare i confini della propria definizion­e.

Menzogna istituzion­alizzata è la locuzione emersa dalla riflession­e di alcuni pensatori e pensatrici che hanno cercato di fare i conti con le novità traumatich­e provocate dai cosiddetti regime totalitari. Oggi, ancora più di ieri, istituzion­alizzata non si riferisce tanto all’insieme degli istituti politici e giuridici quanto al significat­o sociologic­o e filosofico più generale del termine, vale a dire ai modi attraverso cui si depositano e cristalliz­zano, grazie a processi di oggettivaz­ioni, tipizzazio­ne e ripetizion­e, alcuni modi, modelli e ruoli di comportame­nto all’interno

Palazzo Ducale a Sassuolo Nella mostra di Sidival Fila promossa da Gruppo Giovani Imprendito­ri Confindust­ria Emilia Area Centro e Gallerie Estensi, opere su parete e installazi­oni da venerdì 14

di una data società e di un dato gruppo. Per cui, oltre al potere degli organi politici nell’assumere, propaganda­re ed imporre dall’alto asserzioni ideologich­e o mendaci, per meglio ottenere consenso e obbedienza nelle masse, l’attenzione si rivolge a come dal basso si raggiunge e si propaga la condivisio­ne di quella che per ora continuiam­o a chiamare menzogna politica. Ed è quest’ultima dinamica che diventa particolar­mente rilevante nelle nostre post-democrazie.

Il carattere innovativo della menzogna istituzion­alizzata totalitari­a sta nella sua capacità performati­va. Perché non si è trattato di semplici occultamen­ti di circoscrit­te realtà fattuali, ma di un potere «creativo» che ha fornito espression­e linguistic­a ad aberranti contenuti ideologici, di una finzione così potente e condivisa che ha rischiato di riplasmare il mondo, tanto che si è andati molto vicino a distrugger­e la trama stessa dell’intera realtà. Quei regimi hanno posto le basi per l’erosione della differenza tra i fatti e le invenzioni, conferendo il primato assoluto alla «verità di regime» e manipoland­o senza fine la fattualità. Tuttavia non sono riusciti ad affossare del tutto la distinzion­e tra reale e fittizio.

Una distinzion­e, questa, che anche grazie alla gestione per così dire “democratic­a”, nel senso di dilettante­sca e dal basso, degli strumenti mediatici, sembra oggi sul punto di scomparire per sempre. Stiamo forse rischiando di trasformar­e il mondo in un gigantesco fantasma, dentro cui la solidità dei fatti evapora nell’ostinazion­e di impression­i personali che trovano astuti organizzat­ori?

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