Quel nostro diritto di sapere
Sulla rivista «Biblioteca della Libertà» (LII, 218, 2017) è stato avviato un confronto sui diritti aletici, i diritti legati alla verità. Il tema ha acquistato di recente un interesse particolare, a fronte della difficoltà di governare non soltanto la comunicazione «esplosa» del web e dei social media, ma anche quella delle aree relativamente regolamentate della cultura (letteratura, religione, arte, giornalismo) e della stessa scienza. La discussione (in cui sono intervenuti Antonella Besussi, Alessandra Facchi, Maurizio Ferrera ed Elisabetta Galeotti) nasceva dal tentativo da me intrapreso di applicare al problema i risultati di una teoria della verità che ho cercato di sviluppare in questi anni.
La mia proposta si articola in tre ipotesi. La prima è guardare alla verità come a un concetto generatore di beni individuali e collettivi, che possono essere espropriati o danneggiati, e dunque diritti, che dovrebbero essere tutelati, dalla politica e dalla legge. La legge già provvede a tutelare il bene-verità in diversi modi, ma il controllo non è mai stato facile, e di fronte alla crescita rapida e disordinata delle informazioni a cui ci sottopone la cultura digitalizzata l’impressione comune è che occorrano nuove regole, nuove misure se non nuove leggi.
Ma su quali basi le collettività e gli individui possono rivendicare un «diritto alla verità»? Va ricordato infatti che il concetto di «diritto alla verità» ha una storia consolidata, che ha ricevuto nuovi impulsi a partire dall’ultimo decennio del secolo scorso, però non esistono, se non in casi isolati, specifiche normative che lo riguardino, e non esiste una teoria complessiva che ne giustifichi la tutela. L’impressione più comunemente condivisa è che una teoria di questo tipo non possa esistere, e che l’idea debba rimanere nella spontaneità e casualità della dimensione pre-giuridica, come indicativa di un’aspirazione occasionalmente legittima, ma non traducibile in alcun tipo di norma. La proposta che suggerisco non intende risolvere il problema, ma piuttosto verificare se una teoria della verità possa fare chiarezza in questo campo problematico.
La seconda ipotesi è che le difficoltà di teorizzare e rendere operativo un simile diritto possono essere in parte aggirate allargando lo sguardo, e parlando non di un solo «diritto alla verità», come diritto di ricevere informazioni rilevanti, ma di un insieme di beni, interessi e valori che si legano all’uso del concetto di verità, e che dovrebbero essere tutelati congiuntamente. In questa prospettiva allargata, è facile vedere che i bisogni-interessi legati alla verità diventano «progressivamente correttivi»: ciascuno agisce come una garanzia per la giusta tutela dei precedenti, evitando i rischi ben noti («verità di Stato», limitazioni della libertà di espressione, irrigidimenti istituzionali del vero e del falso).
Ho dunque isolato tre settori in cui il concetto di verità assume una speciale rilevanza: l’area dell’informazione, quella delle istituzioni scientifiche (università, ricerca), quella della cultura e delle idee generalmente condivise. In ciascun settore sono emersi due diritti aletici (DA), il secondo dei quali è condizione di una corretta salvaguardia del precedente. Per esempio, il primo dei due DA relativi alla scienza ci dice che ciascun essere umano ha il diritto di essere considerato un potenziale veicolo di verità, dunque non deve subire una discriminazione epistemica; ma è ovvio che non tutti sono dotati della stessa affidabilità, emerge dunque il DA successivo, il diritto di avere istituzioni scientifiche che conferiscano credibilità a certi soggetti e non ad altri in modo corretto, cioè truth-oriented, e non in base a opportunità di altro genere, come scambi o favori economici o politici.
La proposta teoreticamente più rilevante è la terza. Occorre riallacciare il significato della parola «verità» alle sue origini greche, dove emergono alcuni aspetti del problema che oggi passano sotto silenzio, o non vengono considerati adeguatamente. Per questo si parla non di «diritti alla verità» ma di diritti aletici, sottolineando con ciò il legame con il significato filosofico del concetto di verità, come era stato concepito nella teoria greca dell’aletheia.
Questo mutamento di prospettiva può chiarire alcune importanti implicazioni legate al nostro uso della funzione concettuale che identifichiamo nel predicato «è vero». In particolare lo sguardo sull’a-letheia (non-nascondimento) ci dice che il bene-verità è un bene negativo: la sua prima opportunità si rivela non nel sapere o nell’informare ma nel non-ingannare e non ingannarsi.
La conseguenza (a lungo dimenticata) è che il concetto di verità ha nei nostri pensieri e discorsi un ruolo anzitutto scettico, serve per criticare, ragionare e discutere (forse non è vero ciò che passa per vero; se è vero che le cose stanno così allora sarà anche vero che…). Il beneverità che dovremmo tutelare è dunque anzitutto la nostra capacità di usare la funzione-verità in modo critico e auto-critico.
In pratica, il nostro fondamentale e primario diritto alla verità – l’ultimo dei DA che ho suggerito – è il diritto che noi tutti abbiamo di essere educati alla verità. «Educazione alla verità» non significa imparare a dire sempre quel che si ritiene essere vero, e neppure a pretendere il vero a ogni costo. Significa piuttosto essere consapevoli dei rischi e delle opportunità che si legano all’uso della funzione che chiamiamo a-letheia, e che – lo vogliamo o no – domina le nostre vite; e imparare a usarla senza danno per sé e per gli altri.
Inganni
A destra, Ryoichi Kurokawa «lttrans #6 2018», nell’ambito della mostra alla Galleria Civica di Modena. Qui sotto: Jean Boulanger «Clio, musa della storia» (Galleria BPER a Modena). A centro pagina: cartolina di propaganda contro lo spionaggio (1915-1918 ) in esposizione all’Archivio Storico di Carpi
LA PROPAGANDA
DELLA NEONATA
ITALIA REPUBBLICANA
La mostra «1948 Italia al bivio.
Verità e menzogne di una repubblica inquieta» presenta un ricco materiale sulla
propaganda elettorale della neonata Italia repubblicana, in occasione del 70° anniversario delle elezioni del 1948. I
materiali metteranno in luce il pluralismo
delle verità discordanti di quel momento.
A cura della Biblioteca Poletti
e dell'Archivio storico, la mostra si terrà a Modena, Palazzo dei Musei a partire da venerdì 14
Èvero, come da più parti si afferma, che il concetto di postverità darebbe voce ad un mutamento epocale rispetto alla distinzione vero-falso? Ed è vero, come alcune filosofe e filosofi anche in Italia sostengono, che l’origine non solo del termine, ma anche della prassi che ad esso corrisponde, andrebbe individuata nel cosiddetto «post-moderno», in quel movimento intellettuale che ha elevato a proprio esergo indiscusso il motto nietzscheano «non esistono fatti, ma solo interpretazioni»?
Temo che queste ipotesi facciano capo a spiegazioni troppo semplici, e probabilmente anche un po’ ideologiche. Per quanto mi riguarda preferisco infatti attenermi ad una locuzione – «menzogna istituzionalizzata» – dal campo semantico meno ampio ma anche meno sfuggente, nata sì in circostanze storiche specifiche ma ancora oggi in grado di aiutarci a capire le ripercussioni politiche, etiche e in fondo antropologiche, dei nuovi e diversi discorsi in cui la realtà ci viene ingannevolmente restituita: edulcorata o parziale; manipolata o distorta; negata o inventata. Certo, si dovrebbe prima riflettere sul significato di menzogna, in un’epoca in cui il concetto stesso di realtà vede modificare i confini della propria definizione.
Menzogna istituzionalizzata è la locuzione emersa dalla riflessione di alcuni pensatori e pensatrici che hanno cercato di fare i conti con le novità traumatiche provocate dai cosiddetti regime totalitari. Oggi, ancora più di ieri, istituzionalizzata non si riferisce tanto all’insieme degli istituti politici e giuridici quanto al significato sociologico e filosofico più generale del termine, vale a dire ai modi attraverso cui si depositano e cristallizzano, grazie a processi di oggettivazioni, tipizzazione e ripetizione, alcuni modi, modelli e ruoli di comportamento all’interno
Palazzo Ducale a Sassuolo Nella mostra di Sidival Fila promossa da Gruppo Giovani Imprenditori Confindustria Emilia Area Centro e Gallerie Estensi, opere su parete e installazioni da venerdì 14
di una data società e di un dato gruppo. Per cui, oltre al potere degli organi politici nell’assumere, propagandare ed imporre dall’alto asserzioni ideologiche o mendaci, per meglio ottenere consenso e obbedienza nelle masse, l’attenzione si rivolge a come dal basso si raggiunge e si propaga la condivisione di quella che per ora continuiamo a chiamare menzogna politica. Ed è quest’ultima dinamica che diventa particolarmente rilevante nelle nostre post-democrazie.
Il carattere innovativo della menzogna istituzionalizzata totalitaria sta nella sua capacità performativa. Perché non si è trattato di semplici occultamenti di circoscritte realtà fattuali, ma di un potere «creativo» che ha fornito espressione linguistica ad aberranti contenuti ideologici, di una finzione così potente e condivisa che ha rischiato di riplasmare il mondo, tanto che si è andati molto vicino a distruggere la trama stessa dell’intera realtà. Quei regimi hanno posto le basi per l’erosione della differenza tra i fatti e le invenzioni, conferendo il primato assoluto alla «verità di regime» e manipolando senza fine la fattualità. Tuttavia non sono riusciti ad affossare del tutto la distinzione tra reale e fittizio.
Una distinzione, questa, che anche grazie alla gestione per così dire “democratica”, nel senso di dilettantesca e dal basso, degli strumenti mediatici, sembra oggi sul punto di scomparire per sempre. Stiamo forse rischiando di trasformare il mondo in un gigantesco fantasma, dentro cui la solidità dei fatti evapora nell’ostinazione di impressioni personali che trovano astuti organizzatori?