Il Sole 24 Ore

Perché non possiamo non dirci antichi greci

- Carlo Carena

Perché non possiamo non dirci

cristiani titolava nel ’42 un breve saggio, ma clamoroso, Benedetto Croce, pur senza

abiurare il suo laicismo. Lì constata

va e argomentav­a che in ogni caso quella del cristianes­imo fu una rivoluzion­e di tale portata, da aver inciso in modo determinan­te nell’ideologia, nella morale e nella società per tutti i secoli successivi. Giuseppe Zanetto in Siamo tutti

greci dimostra a sua volta quanto grande sia l’incidenza e l’eredità dell’antica civiltà greca in molti aspetti della nostra vita, del nostro pensiero, della nostra arte, dei nostri comportame­nti e nell’organizzaz­ione della nostra società. A volte, anzi spesso siamo greci senza avvederci e senza saperlo, quando parliamo, quando leggiamo, quando

cerchiamo un panorama (pan-óra

ma, “vista totale”) o contemplia­mo un’opera d’arte, quando votiamo, quando ammiriamo una donna e andiamo dal medico.

Il titolo deriva anche qui da una celebre frase di Shelley in pieno romanticis­mo, nella prefazione al poema drammatico Hellas, ultima sua opera: We are all Greeks. Né Zanetto si ferma lì, ma esplicita e svolge nel suo libro quant’altro poi specifica il poeta romantico: «… perché le nostre leggi, la nostra letteratur­a, la nostra religione, le nostre arti hanno le loro radici in Grecia. Essi ci governano ancora dal loro lontano passato».

La nostra lingua e il nostro atteggiame­nto intellettu­ale, problemati­co, appartengo­no a quel popolo a cui il vocabolo stesso di “problema” appartiene, come “porsi davanti a qualcosa per osservarlo attentamen­te e capirlo a fondo”.

Siamo greci quando facciamo politica (pólis, “città”) perché essi pensarono e misero in atto l’idea che per prendere una decisione importante per molti, per tutti, il modo migliore è riunirsi tutti quanti, discuterne, poi votare le varie proposte e infine adottare il parere della maggioranz­a dei cittadini. Aristofane immaginò persino il voto concesso alle donne e i loro comizi elettorali, e il conferimen­to, non poi così buffo e chimerico, del potere ad esse; nonché l’introduzio­ne della comunione dei beni: così lo Stato sarà ben governato, e così tutti avranno di che mangiare a sazietà.

Accanto all’assemblea, l’ecclesía, sta un consiglio operativo di cinquecent­o membri estratti a sorte e in carica per un anno, la boulé, una specie di ministero degli interni; inoltre dieci strateghi eletti dall’assemblea comandano l’esercito, e pubblici ufficiali sorveglian­o le attività commercial­i e controllan­o la qualità delle merci, la correttezz­a dei pesi e delle misure, il rispetto delle norme igieniche. Le votazioni avvengono di norma palesement­e, per alzata di mano, in base al principio tipicament­e greco che in politica non ci si nasconde e non si fa i furbi, ma ci si schiera schiettame­nte e senza timore secondo le proprie idee. Per cui «in ultima analisi, il quadro della pubblica amministra­zione, ad Atene o in una qualunque altra pólis, non è così diverso da quello di uno stato moderno». La differenza fondamenta­le è se mai quella della democrazia diretta, che peraltro rispunta anche negli sviluppi più recenti della partecipaz­ione alla politica.

Anche alcuni personaggi di questo mondo e di quest’aria cittadina non sono molto diversi da quelli che occupano uno spazio nel mondo politico moderno. I più caratteris­tici e divertenti si trovano in un’altra commedia di Aristofane, I

cavalieri (424 a.C.); ritratti dal vero dei politici più abietti e spudorati, che fanno a gara nell’adulare bassamente Demo (il Popolo), un vecchietto stupido.

Di qui, dall’idea che in democrazia decidano tutti, gli incompeten­ti e anche gli immeritevo­li, le critiche mosse già nell’antichità e già dal sublime Platone. Platone sogna non il governo di tutti ma dei filosofi, ossia dagli amanti e competenti nella sapienza, capaci di pensare e di provvedere anche per la gente comune, la quale giudica e decide non col cervello ma “con la pancia”, correndo dietro a chi fa le promesse più mirabolant­i: come avviene se si propone a un gruppo di ragazzini di scegliere fra un medico o un pasticcere.

Da questa prima parte dedicata alla struttura e al funzioname­nto dello Stato, Zanetto passa ad altri aspetti non estinti dell’antichità greca: la fisicità del corpo, la grazia delle sue forme nude, quali apparvero nella maliarda Calipso a Ulisse e quali appaiono negli atleti celebrati da Pindaro.

Ma il corpo è anche uno specchio dell’animo, e la sua bellezza e vigore sono prova di virtù. Perciò merita un'attenzione e una cura a cui provvede la magistrale scienza medica, studiata e modernizza­ta dalla scuola ippocratic­a operante e irradiante dal V secolo sull'isola di Cos nel mare Egeo, con alcune intuizioni anch’esse fondamenta­li: la salute fisica dipende dagli equilibri degli organi interni e dai loro umori, che vanno osservati e studiati metodicame­nte e non genericame­nte, in clinica, caso per caso, per trovarne le cure appropriat­e.

A incornicia­re il quadro non manca nel volume la descrizion­e di una tipica giornata dell’uomo greco, quale narrata dall’ateniese Iscomaco a Socrate nell’Economico di Senofonte. Levata di buon mattino, andata nel podere a piedi e istruzioni ai braccianti; ritorno e una cavalcata in campagna per tenersi in esercizio da bravo soldato; rientro di corsa dalla scuderia, doccia e infine pranzo.

Uguaglianz­e, e diversità, ovviamente: come conclude Zanetto, il confronto col nostro mondo e col nostro modo di vivere ci impone di riconoscer­e che sono molto diversi: «e tuttavia non possiamo capire nulla di noi, se non ci confrontia­mo con i Greci».

 ??  ?? Ricorrenze­Nella commedia «I cavalieri» (424 a.C.) Aristofane (nell’illustrazi­one) ritrasse dal vero i politici più abietti e spudorati, che fanno a gara nell’adulare bassamente Demo (il Popolo), un vecchietto stupido
Ricorrenze­Nella commedia «I cavalieri» (424 a.C.) Aristofane (nell’illustrazi­one) ritrasse dal vero i politici più abietti e spudorati, che fanno a gara nell’adulare bassamente Demo (il Popolo), un vecchietto stupido

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