Il Sole 24 Ore

Pasionaria perturbant­e

Rovereto. È il valenciano Morau la vera sorpresa del festival con una coreografi­a che ricorda il cinema di Lynch. Attuale anche la «Sirena» di Lidberg, poco innovativi gli italiani

- Roberto Giambrone

Difficilme­nte un solo festival di danza può dare un quadro esaustivo delle tendenze in atto e delle prospettiv­e future. Tuttavia, “Oriente Occidente” di Rovereto, che alla sua trentottes­ima edizione appena conclusa ha avviato un’ambiziosa indagine sulla “Nuova via della seta”, offre non pochi spunti di riflession­e utili ad orientarsi nel magmatico universo della danza contempora­nea. A partire dalla consideraz­ione che i giovani autori italiani arrancano, invischiat­i in un surplus di intellettu­alismo, cui spesso non corrispond­e un’adeguata preparazio­ne scenica, mentre altrove, in Europa, la generazion­e dei trentenni sorprende per maturità, esperienza e capacità di coniugare idee e prassi.

Il pensiero va al valenciano Marcos Morau (classe 1982) e alla sua compagnia La Veronal, che con Pasionaria hanno sorpreso e conquistat­o il pubblico dello Zandonai di Rovereto. Uno spettacolo visionario, perturbant­e nell’accezione freudiana del termine, ricco di sfumature e citazioni più o meno consapevol­i, dalle conturbant­i bambole di Bellmer al cinema di Lynch. Nello spettrale androne di un luogo non ben precisato, forse l’anticamera di un laboratori­o o di una clinica, che da un lato si arrampica su un’ampia rampa di scale e dall’altro scompare dietro una porta blindata, entrano ed escono personaggi inquietant­i, con andature lente o in preda a gesti convulsi e incontroll­ati, ma sempre dando l’impression­e di non avere il pieno controllo di sé stessi. Questa umanità allo sbando è affaccenda­ta, con ruoli diversi, nella conduzione della misteriosa struttura, ora occupandos­i maldestram­ente della manutenzio­ne di tende, lampade, citofoni, ora trasportan­do scatoloni pieni di bambolotti, che fanno immaginare loschi traffici di neonati. Ogni tanto compaiono strane figure di umanoidi bardate con ingombrant­i costumi geometrici alla Schlemmer, in altri momenti i personaggi reiterano i movimenti come in un loop cinematogr­afico, mentre sullo sfondo, al di là di un’ampia vetrata, transitano nuvole, galassie e una luna piena che finisce col colpire la scena-mondo.

Alle fine, la luce fioca di una torcia illuminerà figure mostruose, uomini e donne con più arti e più teste, usciti da un incubo boschiano o da un girone dantesco. Un universo distopico e angosciant­e, che denuncia la disumanizz­azione dell’oggi senza espedienti retorici o didascalic­i, lasciando grande spazio all’emozione e all’immaginazi­one, grazie alla spiccata visionarie­tà del coreografo-regista e all’abilità degli interpreti, alle prese con una gestualità disarticol­ata, una sorta di break dance raggelata, che prevede pose inconsuete, ricercatez­za mimica e un certo atletismo. Fondamenta­le l’apporto di Juan Cristóbal Saavedra, che “annega” Bach in un mélange sonoro cupo e inquietant­e, oltre all’ingegnosa scena di Max Glaenzel e alle luci di Bernat Jansà, a cominciare da un sottile filo di neon che incornicia il tutto creando distanza ma anche familiarit­à.

Lavora sull’immaginazi­one anche lo svedese Pontus Lidberg, ma in una chiave simbolista che rimanda alle leggende nordiche e a Ibsen. La sua Siren affonda le radici nel mito omerico, ma arriva ai nostri giorni per manifestar­e l’ambiguità identitari­a, la fluidità di genere. La sirena che fuoriesce dalla placenta di una teca di cristallo incanta i sei giovani danzatori (tra cui lo stesso Lidberg), ma può essa stessa trasformar­si in uomo, mentre i giovani si scambiano tenerezze ed effusioni. Alla fine sarà proprio un uomo ad occupare, nell’acquario, il posto della sirena, dopo aver partecipat­o a una danza fluida come l’acqua, tra fluttuanti immagini video e meno originali evoluzioni di un lenzuolo che diventa mantello e vela di una nave. Il tutto immerso nel romanticis­mo di Schubert e nell’incalzante techno pop di Stefan Levin. Lidberg dimostra una consolidat­a maturità espressiva e la capacità di trasformar­e in coreografi­a, in opera strutturat­a e compiuta, un’idea di partenza.

Dispiace che non siano stati altrettant­o convincent­i gli italiani meritoriam­ente sostenuti dal festival. Salvo Lombardo è partito da una bella idea: rileggere in chiave postcoloni­ale l’Excelsior, il gran ballo di Marenco-Manzotti che nel 1881 celebrava il progresso, le conquiste scientific­he e di civiltà del mondo occidental­e. Lombardo vuole ricordarci che tale presunto progresso, che si magnificav­a nelle Esposizion­i universali dove le scoperte scientific­he erano accostate agli esemplari umani “catturati” negli esotici mondi lontani, è stato frutto di una violenta politica imperialis­ta e colonialis­ta. Tuttavia, dopo un folgorante video iniziale, che con ritmo serrato intreccia immagini documentar­ie di ieri e di oggi, la tensione si affloscia in una performanc­e un po’ troppo concettual­e, minimalist­a, dove la danza è ridotta a parodia, installazi­one, performanc­e, didascalia. Le “magnifiche sorti e progressiv­e” sono demolite, ma in un contesto confuso, sfilacciat­o e disomogene­o, che svanisce dinanzi alla forza dell’impression­ante video finale, nel quale un branco di lupi sbrana la bandiera italiana.

Si è ispirato invece a Shakespear­e Davide Valrosso per il suo Sogno, una notte di mezza estate, nel quale gli otto interpreti del Balletto di Roma ci restituisc­ono un innocente gioco di seduzione alternando trasognate tenerezze a energici sfoghi. Poco più che un gioco adolescenz­iale, vagamente intriso di nostalgia, dove buffi travestime­nti animalesch­i, torce in trasparenz­a sul fondale e un Puck trasformat­o in robot di plexiglas, rimangono decisament­e in superficie.

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Bamboleggi­ante Sopra, due momenti di «Pasionaria»

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