Pasionaria perturbante
Rovereto. È il valenciano Morau la vera sorpresa del festival con una coreografia che ricorda il cinema di Lynch. Attuale anche la «Sirena» di Lidberg, poco innovativi gli italiani
Difficilmente un solo festival di danza può dare un quadro esaustivo delle tendenze in atto e delle prospettive future. Tuttavia, “Oriente Occidente” di Rovereto, che alla sua trentottesima edizione appena conclusa ha avviato un’ambiziosa indagine sulla “Nuova via della seta”, offre non pochi spunti di riflessione utili ad orientarsi nel magmatico universo della danza contemporanea. A partire dalla considerazione che i giovani autori italiani arrancano, invischiati in un surplus di intellettualismo, cui spesso non corrisponde un’adeguata preparazione scenica, mentre altrove, in Europa, la generazione dei trentenni sorprende per maturità, esperienza e capacità di coniugare idee e prassi.
Il pensiero va al valenciano Marcos Morau (classe 1982) e alla sua compagnia La Veronal, che con Pasionaria hanno sorpreso e conquistato il pubblico dello Zandonai di Rovereto. Uno spettacolo visionario, perturbante nell’accezione freudiana del termine, ricco di sfumature e citazioni più o meno consapevoli, dalle conturbanti bambole di Bellmer al cinema di Lynch. Nello spettrale androne di un luogo non ben precisato, forse l’anticamera di un laboratorio o di una clinica, che da un lato si arrampica su un’ampia rampa di scale e dall’altro scompare dietro una porta blindata, entrano ed escono personaggi inquietanti, con andature lente o in preda a gesti convulsi e incontrollati, ma sempre dando l’impressione di non avere il pieno controllo di sé stessi. Questa umanità allo sbando è affaccendata, con ruoli diversi, nella conduzione della misteriosa struttura, ora occupandosi maldestramente della manutenzione di tende, lampade, citofoni, ora trasportando scatoloni pieni di bambolotti, che fanno immaginare loschi traffici di neonati. Ogni tanto compaiono strane figure di umanoidi bardate con ingombranti costumi geometrici alla Schlemmer, in altri momenti i personaggi reiterano i movimenti come in un loop cinematografico, mentre sullo sfondo, al di là di un’ampia vetrata, transitano nuvole, galassie e una luna piena che finisce col colpire la scena-mondo.
Alle fine, la luce fioca di una torcia illuminerà figure mostruose, uomini e donne con più arti e più teste, usciti da un incubo boschiano o da un girone dantesco. Un universo distopico e angosciante, che denuncia la disumanizzazione dell’oggi senza espedienti retorici o didascalici, lasciando grande spazio all’emozione e all’immaginazione, grazie alla spiccata visionarietà del coreografo-regista e all’abilità degli interpreti, alle prese con una gestualità disarticolata, una sorta di break dance raggelata, che prevede pose inconsuete, ricercatezza mimica e un certo atletismo. Fondamentale l’apporto di Juan Cristóbal Saavedra, che “annega” Bach in un mélange sonoro cupo e inquietante, oltre all’ingegnosa scena di Max Glaenzel e alle luci di Bernat Jansà, a cominciare da un sottile filo di neon che incornicia il tutto creando distanza ma anche familiarità.
Lavora sull’immaginazione anche lo svedese Pontus Lidberg, ma in una chiave simbolista che rimanda alle leggende nordiche e a Ibsen. La sua Siren affonda le radici nel mito omerico, ma arriva ai nostri giorni per manifestare l’ambiguità identitaria, la fluidità di genere. La sirena che fuoriesce dalla placenta di una teca di cristallo incanta i sei giovani danzatori (tra cui lo stesso Lidberg), ma può essa stessa trasformarsi in uomo, mentre i giovani si scambiano tenerezze ed effusioni. Alla fine sarà proprio un uomo ad occupare, nell’acquario, il posto della sirena, dopo aver partecipato a una danza fluida come l’acqua, tra fluttuanti immagini video e meno originali evoluzioni di un lenzuolo che diventa mantello e vela di una nave. Il tutto immerso nel romanticismo di Schubert e nell’incalzante techno pop di Stefan Levin. Lidberg dimostra una consolidata maturità espressiva e la capacità di trasformare in coreografia, in opera strutturata e compiuta, un’idea di partenza.
Dispiace che non siano stati altrettanto convincenti gli italiani meritoriamente sostenuti dal festival. Salvo Lombardo è partito da una bella idea: rileggere in chiave postcoloniale l’Excelsior, il gran ballo di Marenco-Manzotti che nel 1881 celebrava il progresso, le conquiste scientifiche e di civiltà del mondo occidentale. Lombardo vuole ricordarci che tale presunto progresso, che si magnificava nelle Esposizioni universali dove le scoperte scientifiche erano accostate agli esemplari umani “catturati” negli esotici mondi lontani, è stato frutto di una violenta politica imperialista e colonialista. Tuttavia, dopo un folgorante video iniziale, che con ritmo serrato intreccia immagini documentarie di ieri e di oggi, la tensione si affloscia in una performance un po’ troppo concettuale, minimalista, dove la danza è ridotta a parodia, installazione, performance, didascalia. Le “magnifiche sorti e progressive” sono demolite, ma in un contesto confuso, sfilacciato e disomogeneo, che svanisce dinanzi alla forza dell’impressionante video finale, nel quale un branco di lupi sbrana la bandiera italiana.
Si è ispirato invece a Shakespeare Davide Valrosso per il suo Sogno, una notte di mezza estate, nel quale gli otto interpreti del Balletto di Roma ci restituiscono un innocente gioco di seduzione alternando trasognate tenerezze a energici sfoghi. Poco più che un gioco adolescenziale, vagamente intriso di nostalgia, dove buffi travestimenti animaleschi, torce in trasparenza sul fondale e un Puck trasformato in robot di plexiglas, rimangono decisamente in superficie.