Lo straniero bussa alle porte della Tuscia
Per quanto più appartato e lontano dai clamori di altre manifestazioni Il festival Quartieri dell’Arte ha una sua forte originalità, e si muove, innanzitutto, a partire da un concetto divenuto ormai il punto di messa in gioco di tutta la nostra società: quello della mescolanza e della commistione tra linee artistiche e tendenze, nonché tra individui, storie e culture differenti. Così nel corso della rassegna, diretta da Gian Maria Cervo, si incrociano scritture di vari angoli del mondo in esperimenti drammaturgici arditi, magari realizzati davanti al pubblico stesso, e con autori, registi e compagnie che propongono molti nomi importanti della scena contemporanea. C’è poi l’idea di un territorio, Viterbo e la Tuscia, da ammirare nell’incanto dei suoi luoghi e della sua arte ma da contaminare con presenze e linee creative non certo facili o prevedibili. Così martedì scorso, nell’intatta quiete medievale di Vitorchiano, tra i portali e i cortili del complesso di Sant’Agnese, gli spettatori si trovavano a fare i conti con i segni più brutali del mondo contemporaneo. Una donna poliziotto consegnava un modulo sul quale dichiarare nazionalità, razza, colore della pelle, fino a quando un uomo, interpretato con vivace energia da Fabrice Boutique, iniziava a raccontare all’agente e al pubblico la sua storia di immigrato siriano, guardato con sospetto da tutti e convinto che, se avesse preso un aereo e questo fosse precipitato, si sarebbero immediatamente concentrati dei sospetti su di lui, alla lettura della lista dei passeggeri, soltanto per il suo nome arabo. Questo è il primo tassello di un lavoro intitolato LEAVeS, ideato e messo in scena dalla regista Anna Romano, partito dall’invito a quattro scrittori, la belga Françoise Berlanger, il francese Stephane Oertli, l’italiana Maria Pia Selvaggio e il siriano Aboud Saeed. Ognuno ha poi letto i copioni degli altri, creando piccole connessioni tra questi, con uno sviluppo più articolato proprio in questi giorni a Barcellona, insieme alla Fura dels Baus, nel tentativo di introdurre ulteriori elementi multimediali. Al primo piano dell’antico palazzetto gli astanti venivano poi sistemati in uno spazio simile a un barcone, mentre in lontananza veniva proiettato un testo che raccontava la storia di una donna, con Aurora Marion a narrarla a bassa voce. Poi la figura femminile si avvicinava e le sue parole si facevano più chiare, la fuga per mare, la violenza di uno dei traghettatori, la caduta in acqua, l’annegamento. In chiusura, nella piccola chiesa, tra lacerti smembrati di altari barocchi e proiezioni di pianeti e galassie del VJ Michel Piccaya, il senso di smarrimento si faceva più cosmico ma anche più grottesco, come per un brutto film di fantascienza, raccontato da Natalie Royer, riguardo a un mondo che crea divisioni ma non potrà mai eliminare l’eterno movimento di popoli e individui.