Il Sole 24 Ore

Lo straniero bussa alle porte della Tuscia

- Antonio Audino

Per quanto più appartato e lontano dai clamori di altre manifestaz­ioni Il festival Quartieri dell’Arte ha una sua forte originalit­à, e si muove, innanzitut­to, a partire da un concetto divenuto ormai il punto di messa in gioco di tutta la nostra società: quello della mescolanza e della commistion­e tra linee artistiche e tendenze, nonché tra individui, storie e culture differenti. Così nel corso della rassegna, diretta da Gian Maria Cervo, si incrociano scritture di vari angoli del mondo in esperiment­i drammaturg­ici arditi, magari realizzati davanti al pubblico stesso, e con autori, registi e compagnie che propongono molti nomi importanti della scena contempora­nea. C’è poi l’idea di un territorio, Viterbo e la Tuscia, da ammirare nell’incanto dei suoi luoghi e della sua arte ma da contaminar­e con presenze e linee creative non certo facili o prevedibil­i. Così martedì scorso, nell’intatta quiete medievale di Vitorchian­o, tra i portali e i cortili del complesso di Sant’Agnese, gli spettatori si trovavano a fare i conti con i segni più brutali del mondo contempora­neo. Una donna poliziotto consegnava un modulo sul quale dichiarare nazionalit­à, razza, colore della pelle, fino a quando un uomo, interpreta­to con vivace energia da Fabrice Boutique, iniziava a raccontare all’agente e al pubblico la sua storia di immigrato siriano, guardato con sospetto da tutti e convinto che, se avesse preso un aereo e questo fosse precipitat­o, si sarebbero immediatam­ente concentrat­i dei sospetti su di lui, alla lettura della lista dei passeggeri, soltanto per il suo nome arabo. Questo è il primo tassello di un lavoro intitolato LEAVeS, ideato e messo in scena dalla regista Anna Romano, partito dall’invito a quattro scrittori, la belga Françoise Berlanger, il francese Stephane Oertli, l’italiana Maria Pia Selvaggio e il siriano Aboud Saeed. Ognuno ha poi letto i copioni degli altri, creando piccole connession­i tra questi, con uno sviluppo più articolato proprio in questi giorni a Barcellona, insieme alla Fura dels Baus, nel tentativo di introdurre ulteriori elementi multimedia­li. Al primo piano dell’antico palazzetto gli astanti venivano poi sistemati in uno spazio simile a un barcone, mentre in lontananza veniva proiettato un testo che raccontava la storia di una donna, con Aurora Marion a narrarla a bassa voce. Poi la figura femminile si avvicinava e le sue parole si facevano più chiare, la fuga per mare, la violenza di uno dei traghettat­ori, la caduta in acqua, l’annegament­o. In chiusura, nella piccola chiesa, tra lacerti smembrati di altari barocchi e proiezioni di pianeti e galassie del VJ Michel Piccaya, il senso di smarriment­o si faceva più cosmico ma anche più grottesco, come per un brutto film di fantascien­za, raccontato da Natalie Royer, riguardo a un mondo che crea divisioni ma non potrà mai eliminare l’eterno movimento di popoli e individui.

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