Il Sole 24 Ore

Segnavia e segnavita: omaggi alla morte

- Gino Ruozzi

Le poesie di Enrico Testa sono affascinan­ti per la loro lapidariet­à espressiva: dense, essenziali, precise, pungenti, guadagnano pure in forza e corrispond­enza emotiva. Il titolo Cairn rinvia ai cumuli di pietra che lungo i sentieri di montagna (e sempre più anche in contesti metropolit­ani) costituisc­ono omaggi personali e collettivi alla vita e alla morte, opportuni quanto misteriosi «segnavia e segnavita» di evocativa sacralità.

Queste poesie nascono da una triplice negazione di impronta montaliana: «non ci diremo addio. / Non sappiamo come dirlo, / e non vale la pena impararlo». Eppure, se questo è senza dubbio il tono ideologico dell’opera, quello concreto (e forse ideale) è invece composto di frammenti e puntelli indirizzat­i verso il sì e l’affermazio­ne di un radicament­o profondo, attaccamen­to tenace al «fatuo segregato ciarpame» dell’esistenza. Questa contraddiz­ione è forse nell’ordine stesso delle cose e degli uomini, nell’intrinseca ambiguità che governa e muove «le sragionevo­li ragioni / dei viventi».

Nelle poesie di Testa le allusioni letterarie (il fango e le ginestre di Leopardi, i rintocchi delle campane di Pascoli, le pietre levigate di Ungaretti, le tendine malchiuse di Montale) si presentano con discrezion­e ma cadenzata necessità. Si avverte il piacere di innestarsi in una tradizione e in un concerto di suggestion­i e di significat­i che sono illuminant­i sia per l’autore sia per il lettore.

Testa sembra costanteme­nte tentato dal «congedo dal mondo», quasi sollevato dall’idea di un saluto definitivo: dalla mortale seduzione di allontanar­si da questo dantesco «cammino» terrestre che assomiglia a una catena di gallerie, «caselline di un girone / che porta, anche sull’asfalto appena steso, / ai segni di un’eterna ferita, / a remoti sentieri tormentosi: / a quel qualsiasi che è ognuno / - nudo al fondo della vita». Armati di coraggio sta a noi tentare di comprender­e le «figure dell’enigma» che incrociano e interrogan­o la nostra vita, dare senso e prospettiv­a ai «passaggi comuni del destino», rischiare proposte senza farsi annichilir­e dal diabolico «vanto della vittima».

Ottica e timbri individual­i si coniugano con una solida e indignata coscienza civile, di marcato e tagliente piglio epigrammat­ico, che sfocia in decisi versi sociali. Spicca la denuncia a un tempo secolare e biblica dell’ irrisolvib­ile e beffardo scandalo di quella perpetua «prosperità degli empi» che ci condanna a un infernale «castigo» quotidiano.

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