Segnavia e segnavita: omaggi alla morte
Le poesie di Enrico Testa sono affascinanti per la loro lapidarietà espressiva: dense, essenziali, precise, pungenti, guadagnano pure in forza e corrispondenza emotiva. Il titolo Cairn rinvia ai cumuli di pietra che lungo i sentieri di montagna (e sempre più anche in contesti metropolitani) costituiscono omaggi personali e collettivi alla vita e alla morte, opportuni quanto misteriosi «segnavia e segnavita» di evocativa sacralità.
Queste poesie nascono da una triplice negazione di impronta montaliana: «non ci diremo addio. / Non sappiamo come dirlo, / e non vale la pena impararlo». Eppure, se questo è senza dubbio il tono ideologico dell’opera, quello concreto (e forse ideale) è invece composto di frammenti e puntelli indirizzati verso il sì e l’affermazione di un radicamento profondo, attaccamento tenace al «fatuo segregato ciarpame» dell’esistenza. Questa contraddizione è forse nell’ordine stesso delle cose e degli uomini, nell’intrinseca ambiguità che governa e muove «le sragionevoli ragioni / dei viventi».
Nelle poesie di Testa le allusioni letterarie (il fango e le ginestre di Leopardi, i rintocchi delle campane di Pascoli, le pietre levigate di Ungaretti, le tendine malchiuse di Montale) si presentano con discrezione ma cadenzata necessità. Si avverte il piacere di innestarsi in una tradizione e in un concerto di suggestioni e di significati che sono illuminanti sia per l’autore sia per il lettore.
Testa sembra costantemente tentato dal «congedo dal mondo», quasi sollevato dall’idea di un saluto definitivo: dalla mortale seduzione di allontanarsi da questo dantesco «cammino» terrestre che assomiglia a una catena di gallerie, «caselline di un girone / che porta, anche sull’asfalto appena steso, / ai segni di un’eterna ferita, / a remoti sentieri tormentosi: / a quel qualsiasi che è ognuno / - nudo al fondo della vita». Armati di coraggio sta a noi tentare di comprendere le «figure dell’enigma» che incrociano e interrogano la nostra vita, dare senso e prospettiva ai «passaggi comuni del destino», rischiare proposte senza farsi annichilire dal diabolico «vanto della vittima».
Ottica e timbri individuali si coniugano con una solida e indignata coscienza civile, di marcato e tagliente piglio epigrammatico, che sfocia in decisi versi sociali. Spicca la denuncia a un tempo secolare e biblica dell’ irrisolvibile e beffardo scandalo di quella perpetua «prosperità degli empi» che ci condanna a un infernale «castigo» quotidiano.