Un «io» felino che schiva la felicità
Le ribellioni all’intelligenza moderna, progettuale e “borghese”, rientrano di solito in uno schema romantico-decadente: puntano sulla vita infantile, incorrotta, “gratuita”. Ma questa vita è poi quasi sempre un mito polemico da letterati, come si vede in Pascoli o nella Morante. Ne esiste però una versione più radicale, quella di chi sembra davvero avvicinarsi al bambino, all’idolo pagano o all’animale: è il caso di Penna. Anche qui tuttavia c’entra la leggenda. Nessuno infatti può essere completamente così: lo si dice per metafora, e la metafora coincide spesso con la poesia di un artista che del mito è più o meno volontario custode o adoratore – un artista in cui un’apparente estraneità all’umano convive con un umanissimo spaesamento. Tra questi due indici si collocano i versi della trentenne Mariagiorgia Ulbar. La Ulbar ricorda un po’ Patrizia Cavalli, poetessa penniana ma anche raziocinante; solo sua, però, è una certa tonalità color perso, un’elettricità simbolica paragonabile semmai al miglior De Angelis. La sua nuova raccolta, uscita per Elliot, è incorniciata da due poemetti, L’invasione e l’eponimo Lighea, che allude alla sirena del racconto lampedusiano. Nel primo l’io lirico lotta con un uovo infrangibile: «provate voi adesso lo sconforto / della forza, la violenza / che si forma in intenzione / e viene vinta / da un sol uovo / una sola eternità / una vita piccola in potenza». Davanti a questa chiusa perfezione, tutto ciò che è umano appare insieme eccessivo e lacunoso, volgare e tirannico come lo è forse ogni volontà, azione o fantasia che pretende di piegare ai suoi desideri l’impassibile tautologia del mondo. Lighea si può invece accostare alle donne bruciate come streghe nella Osnabrück del Rinascimento, cui la Ulbar dedicò un poemetto anni fa: il femminino, in questa autrice mai esibizionisticamente femminea, rappresenta gli elementi irriducibili alla socialità e al possesso.
Tra l’inumana biologia dell’uovo e della sirena si stende una serie di sezioni che perimetrano la costitutiva carenza d’essere dell’uomo, al quale sono preclusi abissi e cieli. Ci troviamo tra steppe da est Europa e misteriosi sbocchi marini, in un paesaggio di freddi verdi e blu, in cui le soglie delle case si confondono coi confini naturali di pietre, erbe e acque. Qui domina un imperfetto da fiaba: una fiaba oscura, che a volte si trasforma nell’incipit di un thriller interrotto proprio quando all’ultimo verso una fiamma illumina delitti o tesori nascosti. Spesso ad attraversare queste terre indefinite è una prima persona plurale senza volto; ma presto l’io scarta, e scopre le cose da solo con i sensi meno condivisibili e più arcaici: il gusto, l’odorato, il tatto. Scava nelle superfici, descrive la realtà mentre la scopre a tentoni. È un io felino, che elegge tane e compagni sempre provvisori per schivare in anticipo la minaccia annidata nella felicità, minaccia forse avveratasi in un passato che ha messo fine alla sua onnipotenza infantile lasciandogli dell’infanzia appena la forma mentis dell’orfano. Per questo personaggio, ogni luogo o corpo è un breve paradiso destinato a mutarsi in inferno. Così torna subito randagio, rifiuta di circoscrivere un progetto adulto, e prova a mantenere intatte tutte le potenzialità come una parodia dell’uovo: «Non mi basta una vita soltanto / e mi dico io posso / e mi metto in braccio ridendo / a chi fa il miracolo / e mi chiude tappando il mio baratro. / Poi passano i giorni e comincio / a sentire l’odore di fuori».
La poetessa è dunque per metà una bestia ferita, in perenne apotropaica fuga, e per metà una sacerdotessa decaduta, che compie riti teurgici secondo leggi semicancellate dal tempo: proprio mentre con laconicità imperativa impone il suo “è così” al cosmo, cerca salvatori come un cucciolo. Le due metà, alleandosi, producono una lingua instabile, ipnotizzata e ipnotica – uno stile insieme balbettante
e perentorio, ieratico e stordito, puntellato da improbabili grumi arcaicizzanti. Ne risulta una fascinosa trascuratezza, un passo scazonte che incrina di continuo le rotondità gnomiche: davvero i versi ulbariani sembrano al tempo stesso «stazioni radio che intercetto per caso» e «una parola che diventa oracolo». Questo stile è poi portato all’assurdo dalla voce della sirena, ancora più “ottusa” e “sapiente”: «io sono quando tutto posso fare / poi spegne e buio e non posso niente». Per la bipolare Lighea esistono solo climax e annullamenti: non sopravvive nella terra di mezzo, alla temperatura dei mortali che costruiscono città e ratificano rapporti. Come già nei versi sul padre della raccolta precedente, qui la lingua “inventata” serve a segnare il limite del dicibile, dell’abitabile, della civiltà di chi nasce, genera e invecchia (nel racconto di Lampedusa, dopo aver assaporato le membra della sirena e il suo eloquio simile a un’antica poesia, il protagonista perde ogni desiderio di condividere la vita con gli umani). Del numinoso, però, si può parlare solo per cifra, restando al di qua della sua soglia, altrimenti se ne verrebbe inghiottiti: «Sirene, sfingi e arpie stanno qui dietro / da fuori io non le vedo / da dentro se entro poi non esco. / Resterò qui sotto che è lontano / sempre su guarderò / non si affaccerà nessuno. / Io sarò me se aspetterò in agguato / ciò che è vero che è mistero che è segreto».
A volte, come in Penna e Cavalli, questa visione si riassume in pochi versi sapienziali. «Niente qui è accidentale / niente qui è conosciuto», dice a un tratto la Ulbar, definendo fulmineamente quel fato che a ognuno è concesso appena intuire, in un mondo dove né gli dèi né gli altri uomini parlano più una lingua comune.