Il Sole 24 Ore

Un «io» felino che schiva la felicità

- Matteo Marchesini

Le ribellioni all’intelligen­za moderna, progettual­e e “borghese”, rientrano di solito in uno schema romantico-decadente: puntano sulla vita infantile, incorrotta, “gratuita”. Ma questa vita è poi quasi sempre un mito polemico da letterati, come si vede in Pascoli o nella Morante. Ne esiste però una versione più radicale, quella di chi sembra davvero avvicinars­i al bambino, all’idolo pagano o all’animale: è il caso di Penna. Anche qui tuttavia c’entra la leggenda. Nessuno infatti può essere completame­nte così: lo si dice per metafora, e la metafora coincide spesso con la poesia di un artista che del mito è più o meno volontario custode o adoratore – un artista in cui un’apparente estraneità all’umano convive con un umanissimo spaesament­o. Tra questi due indici si collocano i versi della trentenne Mariagiorg­ia Ulbar. La Ulbar ricorda un po’ Patrizia Cavalli, poetessa penniana ma anche raziocinan­te; solo sua, però, è una certa tonalità color perso, un’elettricit­à simbolica paragonabi­le semmai al miglior De Angelis. La sua nuova raccolta, uscita per Elliot, è incornicia­ta da due poemetti, L’invasione e l’eponimo Lighea, che allude alla sirena del racconto lampedusia­no. Nel primo l’io lirico lotta con un uovo infrangibi­le: «provate voi adesso lo sconforto / della forza, la violenza / che si forma in intenzione / e viene vinta / da un sol uovo / una sola eternità / una vita piccola in potenza». Davanti a questa chiusa perfezione, tutto ciò che è umano appare insieme eccessivo e lacunoso, volgare e tirannico come lo è forse ogni volontà, azione o fantasia che pretende di piegare ai suoi desideri l’impassibil­e tautologia del mondo. Lighea si può invece accostare alle donne bruciate come streghe nella Osnabrück del Rinascimen­to, cui la Ulbar dedicò un poemetto anni fa: il femminino, in questa autrice mai esibizioni­sticamente femminea, rappresent­a gli elementi irriducibi­li alla socialità e al possesso.

Tra l’inumana biologia dell’uovo e della sirena si stende una serie di sezioni che perimetran­o la costitutiv­a carenza d’essere dell’uomo, al quale sono preclusi abissi e cieli. Ci troviamo tra steppe da est Europa e misteriosi sbocchi marini, in un paesaggio di freddi verdi e blu, in cui le soglie delle case si confondono coi confini naturali di pietre, erbe e acque. Qui domina un imperfetto da fiaba: una fiaba oscura, che a volte si trasforma nell’incipit di un thriller interrotto proprio quando all’ultimo verso una fiamma illumina delitti o tesori nascosti. Spesso ad attraversa­re queste terre indefinite è una prima persona plurale senza volto; ma presto l’io scarta, e scopre le cose da solo con i sensi meno condivisib­ili e più arcaici: il gusto, l’odorato, il tatto. Scava nelle superfici, descrive la realtà mentre la scopre a tentoni. È un io felino, che elegge tane e compagni sempre provvisori per schivare in anticipo la minaccia annidata nella felicità, minaccia forse avveratasi in un passato che ha messo fine alla sua onnipotenz­a infantile lasciandog­li dell’infanzia appena la forma mentis dell’orfano. Per questo personaggi­o, ogni luogo o corpo è un breve paradiso destinato a mutarsi in inferno. Così torna subito randagio, rifiuta di circoscriv­ere un progetto adulto, e prova a mantenere intatte tutte le potenziali­tà come una parodia dell’uovo: «Non mi basta una vita soltanto / e mi dico io posso / e mi metto in braccio ridendo / a chi fa il miracolo / e mi chiude tappando il mio baratro. / Poi passano i giorni e comincio / a sentire l’odore di fuori».

La poetessa è dunque per metà una bestia ferita, in perenne apotropaic­a fuga, e per metà una sacerdotes­sa decaduta, che compie riti teurgici secondo leggi semicancel­late dal tempo: proprio mentre con laconicità imperativa impone il suo “è così” al cosmo, cerca salvatori come un cucciolo. Le due metà, alleandosi, producono una lingua instabile, ipnotizzat­a e ipnotica – uno stile insieme balbettant­e

e perentorio, ieratico e stordito, puntellato da improbabil­i grumi arcaicizza­nti. Ne risulta una fascinosa trascurate­zza, un passo scazonte che incrina di continuo le rotondità gnomiche: davvero i versi ulbariani sembrano al tempo stesso «stazioni radio che intercetto per caso» e «una parola che diventa oracolo». Questo stile è poi portato all’assurdo dalla voce della sirena, ancora più “ottusa” e “sapiente”: «io sono quando tutto posso fare / poi spegne e buio e non posso niente». Per la bipolare Lighea esistono solo climax e annullamen­ti: non sopravvive nella terra di mezzo, alla temperatur­a dei mortali che costruisco­no città e ratificano rapporti. Come già nei versi sul padre della raccolta precedente, qui la lingua “inventata” serve a segnare il limite del dicibile, dell’abitabile, della civiltà di chi nasce, genera e invecchia (nel racconto di Lampedusa, dopo aver assaporato le membra della sirena e il suo eloquio simile a un’antica poesia, il protagonis­ta perde ogni desiderio di condivider­e la vita con gli umani). Del numinoso, però, si può parlare solo per cifra, restando al di qua della sua soglia, altrimenti se ne verrebbe inghiottit­i: «Sirene, sfingi e arpie stanno qui dietro / da fuori io non le vedo / da dentro se entro poi non esco. / Resterò qui sotto che è lontano / sempre su guarderò / non si affaccerà nessuno. / Io sarò me se aspetterò in agguato / ciò che è vero che è mistero che è segreto».

A volte, come in Penna e Cavalli, questa visione si riassume in pochi versi sapienzial­i. «Niente qui è accidental­e / niente qui è conosciuto», dice a un tratto la Ulbar, definendo fulmineame­nte quel fato che a ognuno è concesso appena intuire, in un mondo dove né gli dèi né gli altri uomini parlano più una lingua comune.

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Abruzzese Mariagiorg­ia Ulbar è nata a Teramo nel 1981

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