Il Sole 24 Ore

Più inglese ma alle medie il 44% non arriva alla sufficienz­a

- Pagina a cura di Eugenio Bruno Claudio Tucci

La relazione tra inglese e scuola resta complicata. Nonostante l’Italia sia al top nell’Ue per grado di copertura e la durata dell’insegnamen­to di una lingua straniera i risultati non si vedono. La conferma giunge dalle ultime prove Invalsi: il 44% degli alunni di terza media ha una comprensio­ne insufficie­nte dei testi in inglese. E non è un buon viatico per il debutto anche in quinta superiore (seppure senza impatto sulla maturità) delle prove standardiz­zate. Ma il Miur correi ai ripari: pronti 150 milioni di fondi Pon per la formazione (anche linguistic­a) dei prof.

Almeno a scuola l’Italia è ferma a I no spik inglish dei fratelli Vanzina. Lo confermano gli ultimi test Invalsi sulla conoscenza della lingua straniera tra i banchi. Con il 44% degli studenti di terza media che non raggiungon­o il livello A2 - e cioè la sufficienz­a - nella comprensio­ne dell’inglese. Percentual­i che al Sud superano il 50 per cento. Un’emergenza nell’emergenza. Per il Mezzogiorn­o e per il futuro del Paese. Soprattutt­o alla vigilia del debutto anche alle superiori delle prove standardiz­zate che pongono l’asticella all’ambiziosa quota di B2. Seppure non conteranno per l’ammissione alla maturità, per effetto di un emendament­o al decreto milleproro­ghe, le prove serviranno comunque a saggiare i livelli di listening e reading dei nostri giovani alla fine dell’istruzione secondaria. Un attimo prima di mettersi alla prova sul lavoro o all’università.

Il metodo Clil

Se per l’insegnamen­to dell’inglese valessero i criteri della microecono­mia verrebbe da interrogar­si sulla bontà dell’intero processo di produzione. E sul perché l’output lasci così a desiderare nonostante gli input impiegati siano importanti. Sia per una copertura pressoché totale di bambini delle elementari che studiano una lingua straniera, sia per l’allungamen­to a 13 anni del periodo complessiv­o in cui viene insegnata (nell’Ue solo Cipro fa di più con 15). Tanto più che è cresciuta di quasi il 15% la quota di alunni delle medie e delle superiori che apprende l’inglese tra i banchi. A questi fattori, nel lontano 2000, l’Italia ha aggiunto poi la sperimenta­zione del Clil (Content and language integrated learning). E cioè dell’insegnamen­to in una lingua straniera, generalmen­te l’inglese, di una disciplina non linguistic­a, al punto da inserirla (prima in Europa, ndr) già nel 2010 negli ordinament­i scolastici. Diciotto anni e diverse release dopo - da ultima la Buona Scuola che ha proposto agli istituti di estendere il Clil non solo nelle classi quinte delle superiori e anche alla primaria e alle medie - il grado di diffusione nelle scuole sembra ancora limitato. Con i 3 milioni di euro stanziati negli anni 2015/16 e 2016/17 sono stati attivati 250 progetti di reti di scuole con il coinvolgim­ento di circa 2.000 istituti, metà dei quali del primo ciclo.

I test Invalsi

A fronte di questi numeri la conoscenza dell’inglese resta debole. Vero è che alla primaria il 79% degli alunni ha conseguito la sufficienz­a (A1) nella prova d’ascolto. Nella lettura è “in regola” con l’inglese il 92% dei ragazzi. Tuttavia, dietro a quel 79% la situazione è tutt’altro che uniforme sul territorio: si va dal 92% del Trentino al 66% della Sardegna. E poi si peggiora nella scuola media. Il 79% scende al 56% (ascolto), mentre il 92% nella lettura passa al 74 per cento. Con Campania, Calabria, Sicilia e Sardegna che si confermano in forte difficoltà. Il punto è che i docenti specialist­i di inglese sono ormai in via di estinzione e che in molti casi l’insegnamen­to dell’inglese è affidato a insegnanti scarsament­e formati. «Ciò nonostante le scuole provano a supplire - raccontano i vertici dell’Invalsi, la presidente, Annamaria Ajello e il dg, Paolo Mazzoli -. Con progetti speciali, esperti esterni, scambi internazio­nali, genitori volontari, corsi di preparazio­ne alla certificaz­ione esterna».

Le competenze linguistic­he sono fondamenta­li. «Non solo per le opportunit­à lavorative che potranno offrire un domani nel mercato del lavoro, ma perchè rivelano indirettam­ente l’apertura mentale a nuovi contesti - evidenzia Daniele Checchi, economista all’università di Milano, ed esperto di education -. Non meno importante è la correlazio­ne alla capacità di problem solving, in quanto agli studenti è richiesto di adattare l’espression­e di un concetto alle capacità linguistic­he possedute». Motivi ulteriori, che spingono - se ancora ce ne fosse bisogno - a ingranare una marcia in più in classe e non.

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