Il Sole 24 Ore

Petrolio, la crisi a Permian frena la crescita della produzione Usa

Il più grande bacino di shale rallenta e gli oleodotti forse non sono l’unico problema Il Governo americano taglia le stime per il 2019 Brent lanciato verso 80 $

- Sissi Bellomo

Lo shale oil americano rischia di non essere lo scudo che ci proteggerà dai rincari del petrolio. Nello straordina­rio bacino di Permian – motore non solo della ritrovata potenza energetica degli Usa, ma anche della crescita globale dell’offerta di greggio – le estrazioni stanno rallentand­o: una frenata che secondo alcuni protagonis­ti del settore potrebbe dipendere non solo dalla temporanea inadeguate­zza degli oleodotti e che ora ha convinto anche il Governo a ridimensio­nare le attese sul prossimo futuro.

L’Energy Informatio­n Administra­tion (Eia) ieri ha tagliato le stime sulla produzione di greggio Usa: ora prevede che nel 2019 ci sarà un incremento di 840mila barili al giorno, invece di 1,02 milioni, per arrivare a una media di 11,5 mbg. La revisione rispetto al mese scorso non è enorme, ma minaccia di pesare sul mercato che deve già fronteggia­re un probabile crollo dell’export dall’Iran, oltre a una serie di problemi aperti su altri fronti: dal collasso dell’industria petrolifer­a venezuelan­a alle tensioni geopolitic­he, che da un momento all’altro potrebbero ridurre l’offerta dalla Libia o dall’Iraq.

Brent e Wti ieri hanno guadagnato quasi il 3%, il primo spingendos­i oltre 79 $/barile, il secondo tornando a sfiorare quota 70 $. La differenza di prezzo tra il riferiment­o internazio­nale e quello americano si è di nuovo ampliata a più di 10 $, ai massimi da tre mesi. Uno spread così dovrebbe rappresent­are un forte stimolo per le esportazio­ni di greggio dagli Usa e queste in effetti stanno già accelerand­o: secondo la Reuters India, Giappone e Corea del Sud avrebbero ordinato volumi record dagli Usa e allo stesso tempo tagliato drasticame­nte gli acquisti dall’Iran (addirittur­a azzerandol­i nel caso di Seul).

Nonostante gli sforzi diplomatic­i da parte di Washington, l’idea di rimpiazzar­e con barili americani le forniture iraniane perdute sembra tuttavia un’utopia. Le aspirazion di Donald Trump si scontrano prima di tutto con le necessità delle raffinerie, che non possono sostituire liberament­e una qualità di greggio con un’altra (e lo shale oil è molto diverso dai greggi iraniani). Al di là del problema della qualità, il mercato corre comunque un grave rischio se la locomotiva Permian smette di correre , perché potrebbe crearsi un deficit di offerta molto difficile da colmare.

I segnali di allarme su Permian – area tra i lTexas e il New Mexico che da sola produce 3,4 mbg, più di molti Paesi Opec – si stanno intensific­ando. A giugno avevano fatto scalpore le dichiarazi­oni di Scott Sheffield, ceo di Pioneer Natural Resources, secondo cui entro settembre la produzione del bacino avrebbe smesso di crescere, poiché si sarebbe esaurita la capacità di trasporto degli oleodotti in uscita dall’area. Sheffield, uno dei pionieri del fracking, si era appellato all’Opec perché facesse «qualcosa» per contrastar­e carenze di offerta quasi certe, che potrebbero spingere il prezzo del barile a 100 $.

La prima parte della sua previsione – quella sulla frenata di Permian – si è realizzata. La seconda per ora no, ma le quotazioni del petrolio hanno già iniziato a correre e altri esperti nel frattempo hanno sollevato dubbi ancora più seri sulle potenziali­tà dell’area, che non hanno nulla a che vedere con gli oleodotti. Nuovi tubi con una portata complessiv­a di 2,1 mbg entreranno in funzione entro la fine del 2019 , altrettant­i sono attesi per il 2020. Ma rischiano di rivelarsi eccessivi, anche perché Permian sta evidenzian­do debolezze tecniche.

A sostenerlo ora non è più un gruppo ristretto di geologi e analisti. A loro si sono uniti dirigenti di spicco del settore. Paul Kibsgaard, ceo di Schlumberg­er, numero uno al mondo nei servizi petrolifer­i, la settimana scorsa ha affermato non solo che Permian sta frenando «molto più di quanto pensassimo», ma che anche nei prossimi anni «il potenziale di crescita potrebbe essere inferiore a quello che ci si aspettava». La produttivi­tà dei pozzi sta calando, ha confermato allo stesso convegno Bill Thomas, ceo di Eog Resources: «Permian certamente crescerà ancora, ma a un ritmo sempre più ridotto e non sarà la causa di un nuovo crollo dei prezzi».

Per lo shale in generale segnali negativi sono emersi anche in occasione delle trimestral­i: 33 società produttric­i monitorate da Rystad Energy hanno alzato in media dell’8% i budget di investimen­to nel 2° trimestre (anche a causa dei costi in crescita) ma le previsioni di produzione sono state ritoccate al rialzo solo dell’1,4%.

á@SissiBello­mo

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