TUTTI PIÙ POVERI SE L’ECONOMIA NON DIALOGA CON GLI ALTRI SAPERI
Dire che il primo ventennio di questo nuovo secolo ci trova impreparati a fare nostro il teorema dell’inclusività come espressione di civile convivenza è un’affermazione dal sapore un po’ amaro, ma così scontata da non cogliere quasi nessuno alla sprovvista. Lo verifichiamo ogni giorno, ne siamo a volte spettatori inermi e complici involontari, addirittura ci sentiamo indignati ma non abbiamo strumenti con cui esprimere qualcosa che sia al di là del personale dissenso.
Eppure veniamo fuori da un Novecento che nel suo originarsi in antitesi alla cultura delle idolatrie nazionali aveva fatto dell’ibridazione di linguaggi, di generi, di forme la propria bandiera identitaria, per ragioni certo di natura estetica, ma senza dimenticare le sfide etiche (e sociologiche) che i fenomeni legati al tema dell’incontro avevano posto quali argomenti inalienabili per qualsiasi nozione di modernità, tanto per i singoli individui quanto per i popoli. Il fatto stesso che oggi continuiamo a parlarne in termini di assenza, l’essere cioè costretti a ribadire l’importanza di un argomento così fondamentale per i futuri scenari di un millennio dai caratteri ancora troppo incerti, è un dato che dovrebbe far riflettere tutti: a fronte di una vocazione alla mescolanza più e più volte ribadita nel corso di almeno cento anni, non siamo stati capaci di raggiungere e di consolidare il sentirsi comunità umana quale presupposto immancabile nella costruzione di un domani a cui dedicare le migliori energie creative. In qualcosa di sicuro abbiamo sbagliato e oggi ne discutiamo come di un’occasione mancata.
Tale riflessione scaturisce dalle parole di Papa Francesco, apparse qualche giorno fa nella lunga intervista rilasciata a questo quotidiano e indicate in maniera più che evidente quali punti cardine di una questione che sta particolarmente a cuore nei programmi del pontificato fino al punto da essere stata annunciata appena dopo l’elezione, quando fu chiaro a tutti il valore delle periferie come luogo moralmente ed economicamente idoneo a farsi palcoscenico di un nuovo, coraggioso vangelo. Riconoscere il paradigma della periferia non equivale semplicisticamente a invertire i poli delle geografie umane, ma a riformulare il giudizio della Storia in nome di quel racconto secondo cui «la pietra scartata dai costruttori...». L’economia dello scarto, a dirla con Bergoglio.
Intorno a questo discorso, che è una sorta di frontiera ed è anche una sfida aperta alle società opulente, viene a radunarsi una serie di straordinarie opportunità. Le quali ovviamente investono la sfera dell’uomo, sia egli attore o fruitore di direttive sociali, ma non mancano di lasciare un segno anche nei princìpi teorici di una cultura che dovrebbe ridiscutere, mediante un codice
I PRIMI VENTI ANNI DEL SECOLO CI HANNO TROVATI IMPREPARATI ALLA SFIDA DELL’INCLUSIVITÀ
forse più attrezzato ai tempi, il rapporto tra ciò che viene comunemente considerato esercizio cruciale di una determinata esperienza – quella di noi uomini in un tempo dove facilmente si confondono i serpenti con le colombe – e ciò che invece determina la condizione di marginalità, la distanza dai numerosissimi centri, la penosa epifania di quel che don Lorenzo Milani definiva «la timidezza dei poveri».
Se non è l’obiettivo maggiore di questi anni, certo è un argomento che si candida a diventare manifesto di un’epoca, presentandosi a noi come prima lettera di un alfabeto che presuppone la necessità di riscrivere, sin dal principio, le regole di un presente che ormai non appaga più nessuno, tanto le logiche del dominio – quelle che trovano ogni giorno lo scenario in cui realizzarsi nei luoghi dove pochi con arroganza decidono le sorti di molti – quanto le insofferenze di quella larghissima parte d’umanità trascurata dalle rotte della Storia o deliberatamente allontanata da esse.
Il problema vero non è tanto limitarsi a sviluppare più o meno intensamente una legislazione dell’accoglienza, piuttosto capovolgere radicalmente tutto ciò che finora aveva contribuito a costruire l’immagine di un mondo non ancora guarito dalla filosofia dell’individualismo: tema, questo, la cui ricaduta presenta infinite parentele con i modelli di vita occidentali, ma dagli esiti legati a un quotidiano che non indugia a diventare norma generale.
Ci siamo arresi, senza nemmeno troppo protestare, a una dimensione dove il termine individuo prendesse il posto del termine persona. Abbiamo lasciato troppo corrivamente il campo all’ipotesi che le fortune economiche rappresentassero gran parte degli interessi umani, dimenticando che il denaro, quando non si limita a essere pura dimostrazione di potenza, ottiene l’effetto che è nella parabola dei talenti: moltiplica senza escludere, amplifica senza menomare. Soprattutto non abbiamo capito che, se mai è esistito un primato di alcune nazioni nel trascorrere dei fatti storici (e noi sappiamo che è esistito), tale primato doveva porre le sue radici nel terreno di quella civiltà in cui l’economia partecipava di un dialogo comunitario insieme con altri saperi, uno fra i tanti, sicuramente non prima di quelle discipline che guardavano all’uomo senza lasciarsi invischiare nelle griglie delle scienze statistiche e nei teoremi della partita doppia.
Se avessimo guardato un po’ di più alla geografia delle cattedrali e dei codici conservati nelle biblioteche dei monasteri, se avessimo ascoltato le lingue eterogenee dei popoli discesi da un medioevo creativo e moderno, probabilmente avremmo un’Europa meno preoccupata dalle oscillazioni dei mercati e dagli indici dei profitti. E magari, liberandoci da queste ossessioni, saremmo anche uomini più ricchi.