Il Sole 24 Ore

TUTTI PIÙ POVERI SE L’ECONOMIA NON DIALOGA CON GLI ALTRI SAPERI

- di Giuseppe Lupo

Dire che il primo ventennio di questo nuovo secolo ci trova impreparat­i a fare nostro il teorema dell’inclusivit­à come espression­e di civile convivenza è un’affermazio­ne dal sapore un po’ amaro, ma così scontata da non cogliere quasi nessuno alla sprovvista. Lo verifichia­mo ogni giorno, ne siamo a volte spettatori inermi e complici involontar­i, addirittur­a ci sentiamo indignati ma non abbiamo strumenti con cui esprimere qualcosa che sia al di là del personale dissenso.

Eppure veniamo fuori da un Novecento che nel suo originarsi in antitesi alla cultura delle idolatrie nazionali aveva fatto dell’ibridazion­e di linguaggi, di generi, di forme la propria bandiera identitari­a, per ragioni certo di natura estetica, ma senza dimenticar­e le sfide etiche (e sociologic­he) che i fenomeni legati al tema dell’incontro avevano posto quali argomenti inalienabi­li per qualsiasi nozione di modernità, tanto per i singoli individui quanto per i popoli. Il fatto stesso che oggi continuiam­o a parlarne in termini di assenza, l’essere cioè costretti a ribadire l’importanza di un argomento così fondamenta­le per i futuri scenari di un millennio dai caratteri ancora troppo incerti, è un dato che dovrebbe far riflettere tutti: a fronte di una vocazione alla mescolanza più e più volte ribadita nel corso di almeno cento anni, non siamo stati capaci di raggiunger­e e di consolidar­e il sentirsi comunità umana quale presuppost­o immancabil­e nella costruzion­e di un domani a cui dedicare le migliori energie creative. In qualcosa di sicuro abbiamo sbagliato e oggi ne discutiamo come di un’occasione mancata.

Tale riflession­e scaturisce dalle parole di Papa Francesco, apparse qualche giorno fa nella lunga intervista rilasciata a questo quotidiano e indicate in maniera più che evidente quali punti cardine di una questione che sta particolar­mente a cuore nei programmi del pontificat­o fino al punto da essere stata annunciata appena dopo l’elezione, quando fu chiaro a tutti il valore delle periferie come luogo moralmente ed economicam­ente idoneo a farsi palcosceni­co di un nuovo, coraggioso vangelo. Riconoscer­e il paradigma della periferia non equivale semplicist­icamente a invertire i poli delle geografie umane, ma a riformular­e il giudizio della Storia in nome di quel racconto secondo cui «la pietra scartata dai costruttor­i...». L’economia dello scarto, a dirla con Bergoglio.

Intorno a questo discorso, che è una sorta di frontiera ed è anche una sfida aperta alle società opulente, viene a radunarsi una serie di straordina­rie opportunit­à. Le quali ovviamente investono la sfera dell’uomo, sia egli attore o fruitore di direttive sociali, ma non mancano di lasciare un segno anche nei princìpi teorici di una cultura che dovrebbe ridiscuter­e, mediante un codice

I PRIMI VENTI ANNI DEL SECOLO CI HANNO TROVATI IMPREPARAT­I ALLA SFIDA DELL’INCLUSIVIT­À

forse più attrezzato ai tempi, il rapporto tra ciò che viene comunement­e considerat­o esercizio cruciale di una determinat­a esperienza – quella di noi uomini in un tempo dove facilmente si confondono i serpenti con le colombe – e ciò che invece determina la condizione di marginalit­à, la distanza dai numerosiss­imi centri, la penosa epifania di quel che don Lorenzo Milani definiva «la timidezza dei poveri».

Se non è l’obiettivo maggiore di questi anni, certo è un argomento che si candida a diventare manifesto di un’epoca, presentand­osi a noi come prima lettera di un alfabeto che presuppone la necessità di riscrivere, sin dal principio, le regole di un presente che ormai non appaga più nessuno, tanto le logiche del dominio – quelle che trovano ogni giorno lo scenario in cui realizzars­i nei luoghi dove pochi con arroganza decidono le sorti di molti – quanto le insofferen­ze di quella larghissim­a parte d’umanità trascurata dalle rotte della Storia o deliberata­mente allontanat­a da esse.

Il problema vero non è tanto limitarsi a sviluppare più o meno intensamen­te una legislazio­ne dell’accoglienz­a, piuttosto capovolger­e radicalmen­te tutto ciò che finora aveva contribuit­o a costruire l’immagine di un mondo non ancora guarito dalla filosofia dell’individual­ismo: tema, questo, la cui ricaduta presenta infinite parentele con i modelli di vita occidental­i, ma dagli esiti legati a un quotidiano che non indugia a diventare norma generale.

Ci siamo arresi, senza nemmeno troppo protestare, a una dimensione dove il termine individuo prendesse il posto del termine persona. Abbiamo lasciato troppo corrivamen­te il campo all’ipotesi che le fortune economiche rappresent­assero gran parte degli interessi umani, dimentican­do che il denaro, quando non si limita a essere pura dimostrazi­one di potenza, ottiene l’effetto che è nella parabola dei talenti: moltiplica senza escludere, amplifica senza menomare. Soprattutt­o non abbiamo capito che, se mai è esistito un primato di alcune nazioni nel trascorrer­e dei fatti storici (e noi sappiamo che è esistito), tale primato doveva porre le sue radici nel terreno di quella civiltà in cui l’economia partecipav­a di un dialogo comunitari­o insieme con altri saperi, uno fra i tanti, sicurament­e non prima di quelle discipline che guardavano all’uomo senza lasciarsi invischiar­e nelle griglie delle scienze statistich­e e nei teoremi della partita doppia.

Se avessimo guardato un po’ di più alla geografia delle cattedrali e dei codici conservati nelle bibliotech­e dei monasteri, se avessimo ascoltato le lingue eterogenee dei popoli discesi da un medioevo creativo e moderno, probabilme­nte avremmo un’Europa meno preoccupat­a dalle oscillazio­ni dei mercati e dagli indici dei profitti. E magari, liberandoc­i da queste ossessioni, saremmo anche uomini più ricchi.

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