Testimonial virtuali, gli eredi moderni dell’omino Michelin
Testimonial virtuali. A 120 anni dal debutto dell’omino Michelin si torna a investire sui personaggi proprietari. Sempre giovani e «coerenti» con l’immagine dell’azienda
«Mi chiamo Nyma, ogni notte devo fare molta strada per andare a prendere l’acqua. Stanotte ho fatto un sogno: le stelle diventavano gocce che riempivano la mia giara. Ho fatto un sogno: è tutto vero, oggi a Djangobo abbiamo un pozzo con acqua freschissima, buona come il cacao che qui fanno le famiglie come la mia». È il tema della nuova campagna pubblicitaria di Pan di Stelle, in Tv da questa settimana e prossima al debutto nei cinema. Una campagna dai forti contenuti sociali, quella che la Armando Testa ha realizzato per il brand dolciario di Barilla, giocata su un doppio binario: da un lato il disegno animato che rappresenta il sogno di Nyma, bambina di sei anni che vive in un villaggio della Costa d’Avorio, dove Barilla ha costruito un pozzo, dall’altro la Nyma reale che quel cartoon lo ha ispirato.
È la rivisitazione di un grande classico della storia del marketing, qualcosa di antico ma sempre prepotentemente attuale: il ricorso al testimonial virtuale, un personaggio “proprietario” che diventa patrimonio della marca. Meglio ancora: avatar del marchio stesso. In principio fu la mascotte: la più antica, in tutta probabilità, è Bibendum, l’omino Michelin apparso per la prima volta in un’inserzione del 1898 e, da allora, sempre perfettamente in carreggiata. Anche a costo di cambiare: a metà degli anni Duemila il salutismo imperante lo portò per esempio a dimagrire. Invariato, tuttavia, il suo peso di icona pop. «Questa formula di comunicazione può apparire antica - spiega Ariela Mortara, docente di Sociologia dei consumi allo Iulm di Milano - ma, se praticata con intelligenza, resta molto efficace. Negli ultimi anni si è assistito a un ritorno di fiamma da parte delle aziende verso quelle che una volta avremmo definito mascotte. E questo - continua la studiosa - avviene per due motivi: si risparmia sugli investimenti rispetto all’utilizzo di endorser in carne e ossa e ci si assicura un “testimonial” in tutto e per tutto coerente con l’azienda, a riparo da cadute di stile che potrebbero creare imbarazzi all’inserzionista, come accadde a Pepsi Cola quando Michael Jackson finì sotto processo per molestie».
I creativi italiani hanno una grande tradizione in tema di testimonial virtuali. Merito di Carosello che, tra gli anni Sessanta e Settanta, fu ribalta per Calimero, il pulcino «piccolo, brutto e nero» creato dai fratelli Pagot e Ignazio Colnaghi per Mira Lanza, La Linea tracciata da Osvaldo Cavandoli per Lagostina e l’indimenticabile Mariarosa del lievito Bertolini. Attivissimo, su questo fronte, fu lo studio di Armando Testa, guarda caso lo stesso che ha realizzato il sogno di Nyma: la serie di Caballero e Carmencita creata per Lavazza, l’ippopotamo Pippo dei pannolini Lines e le innumerevoli evoluzioni di Riso Gallo sono lì a testimoniarlo. «I segreti del successo di una campagna che utilizza un testimonial virtuale sottolinea Michele Mariani, direttore creativo di Armando Testa - sono essenzialmente due. Innanzitutto, il personaggio che crei deve essere reale, vivere, risultare credibile agli occhi del pubblico. E poi deve essere coerente con la marca che rappresenta. Quando in un’impresa c’è un cambio generazionale - continua Mariani succede spesso che ci chiedano di ribaltare completamente la propria strategia comunicativa, mandando in soffitta quella che fino al giorno prima era la cifra distintiva del marchio. Lavorare così è un grandissimo rischio: come nulla si può finire col buttare via il proverbiale bambino con l’acqua sporca. E invece no: un testimonial virtuale può anche evolversi nel tempo e adeguarsi ai cambiamenti di costume, ma deve restare fedele allo stile di fondo che l’azienda ha sempre usato per la comunicazione, com’è successo per Miss Ciquita, testimonial dell’omonima banana».
O per Acqua Lete, azienda che a partire dal 2001 ha cominciato a identificarsi con la celebre particella di sodio. «Il virtuale è il campo del fantastico», secondo Gabriella Cuzzone, direttore marketing del gruppo. «Se sai lavorarci, instauri un rapporto privilegiato con il pubblico al quale ti rivolgi. Un testimonial reale, nel breve termine, magari ti assicura un ritorno maggiore. Ma gli effetti collaterali di questo tipo di strategia possono essere molteplici: dall’essere fagocitati dal proprio testimonial fino al ritrovarsi sguarniti, perché un personaggio in carne e ossa invecchia o finisce nel dimenticatoio». Tutti problemi che la particella di sodio, concepita con J. Walter Thompson, non ha mai avuto. Sette anni fa ha addirittura “messo su famiglia”: cambiano i soggetti degli spot di Lete (ora ci sono per esempio le cellule del corpo umano), non certo lo stile.
Testimonial virtuali frequentatissimi dalle aziende che vendono servizi immateriali, come Segugio.it con il suo cane parlante e Findomestic con l’omino ricoperto di erba verde, «l’identità visiva dell’azienda e la visione del rapporto con il cliente», secondo Lorenza Ciacci, direttore di marca dell’istituto di credito. O ancora Harry il leprotto di Solo Affitti, «ideato per richiamare il concetto di velocità legato alle trattative immobiliari, soprattutto quelle degli affitti», racconta il presidente Silvia Spronelli. Certo, molti di voi staranno pensando che il marketing contemporaneo è roba da influencer che caricano post sui social network. Ma forse vi siete persi Lil Miquela, fashion blogger da 1,4 milioni di follower su Instagram. Piccolo dettaglio: non è fatta di carne e ossa. Non è mica da questi particolari che si giudica un avatar.
á@MrPriscus