IL BISOGNO DI LEADER CAPACI PRIMA DI TUTTO DI ASCOLTARE
Ha avuto nomi diversi (Wirtschaftswunder, Trente glorieuses, Industria lismens guldålder), ma ciò che accomuna la lunga fase di crescita che l’Occidente ha vissuto nel dopoguerra è esattamente la coscienza di appartenere a una comunità che, pur punteggiata di conflitti spesso accesissimi, aveva «un futuro da costruire insieme», come dice Papa Francesco nell’intervista esclusiva a Guido Gentili che ne ha suggellato la direzione del Sole.
A vederlo con un’altra angolazione,il miracolo economico è stata indubbiamente anche l’epoca d’oro del maschio bianco, perciò le recenti statistiche americane di mortalità sono degne della massima attenzione: l’aspettativa di vita, cresciuta costantemente negli ultimi 70 anni, è leggermente diminuita nel 2014. Tra le cause l’accresciuta mortalità tra i 25 e i 55 anni, dovuta a dipendenze, malattie del fegato e suicidi. Ciò concorre a spiegare un altro risultato recente, divulgato dall’Organizzazione mondiale della sanità, che stima che l’aspettativa di vita sana (al netto cioè di eventuali periodi di dipendenza cronica) sia ormai superiore in Cina (68,7 anni) che negli Stati Uniti (68,5). E ciò malgrado siano invece continuate a migliorare le statistiche della mortalità fra tutti gli altri gruppi etnici e per le donne, anche bianche.
È una divaricazione dei destini che affievolisce il senso di appartenenza a una radice comune di umanità, come si esprime il pontefice argentino.
E se l’America non è più tanto great, la “colpa” ce l’hanno i maschi bianchi. E la fine del patriarcato produce comportamenti elettorali dirompenti. Il dibattito politologico sulle elezioni presidenziali 2016 (ma anche su Brexit) ha individuato due motivazioni principali. Una rimanda ai loser della globalizzazione e del cambiamento tecnologico, in particolare nelle zone di alta dipendenza dal manifatturiero, che sono poi anche quelle dove più diffuso era il sentimento di far parte di una élite produttiva; l’altra (sostenuta in particolare da Diana Mutz) enfatizza invece la minaccia al proprio status di dominatori che i maschi bianchi cristiani e poco istruiti hanno percepito di fronte alle rivendicazioni di donne, non-bianchi, atei o agnostici e non-eterosessuali. Gruppi a lungo in qualche misura subalterni e i cui diritti i democratici hanno voluto promuovere e garantire – come eticamente ed economicamente giusto, ma politicamente inefficace.
La giuria degli studiosi non si è ancora espressa su quale teoria sia definitiva, anche perché il fattore esplicativo è probabilmente la combinazione tra posizionamento e status. Quello che è discutibile è che i movimenti cosiddetti populisti che dell’uomo bianco sono paladini a parole ne facciano poi veramente gli interessi. Ovviamente Francesco
FRANCESCO HA POSTO L’ACCENTO SUL «BISOGNO DI SPERANZA E DI FUTURO»
non si esprime in termini tanto espliciti, ma è legittimo dubitare che consideri certi leader attuali all’altezza del «bisogno di speranza e di futuro» che chiedono gli europei che della globalizzazione si considerano vittime.
La crisi dell’uomo bianco medio è dovuta alla terziarizzazione dell’economia, che richiede competenze diverse rispetto all’industria: capacità di ascolto e dialogo, piuttosto che forza fisica e autorità; comprensione del contesto e adattamento, piuttosto che applicazione di blueprint codificati; e formazione scolastica formale con risultati all’altezza. Oltretutto, al senso di frustrazione per la superiore capacità delle donne di sfruttare le opportunità di un mondo che cambia, si aggiungono sentimenti d’ingiustizia: verso le pari opportunità, di cui i nuovi misogini non vedono la necessità, ma anche perché ai piani alti della società il vento del cambiamento soffia meno che nei sottoscala (per non fare che tre esempi italiani, sono maschi gli ad di tutte le società del Ftse/Mib, 11 ministri con portafoglio su 13 e 77 rettori d’università su 82). Temi complessi che richiedono politiche di medio e lungo periodo, in particolare d’istruzione e formazione, per ridare dignità al lavoro.
Un altro paradosso è che i leader del nuovo machismo, sempre pronti a indossare la tenuta da combattimento, lanciarsi in sfide sportive (e non si sa mai che anche il flipper diventi disciplina olimpica), far mostra del proprio testosterone per conquistare il gentil sesso, sono anche campioni delle lamentele e del rancore. La responsabilità per i problemi e gli insuccessi ricade sempre sugli altri: una lista sicuramente non esaustiva comprende immigrati, finanzieri invisibili, tecnocrazie sovranazionali e varie categorie di nemici dell’interno (giornalisti, intellettuali, funzionari indipendenti, clerici non allineati). Il tono è aggressivo, come se la mascolinità fosse esprimibile solo sottomettendo e umiliando la controparte. Sembra che chiedere scusa fosse più semplice per Fonzie di quanto lo sia per un dirigente politico che gli errori, governando un Paese, è del tutto normale possa commetterli.
Questa virilità ha poco a vedere con quella di politici con gli attributi come “la Tigre” Clemenceau o “il Bulldog” Churchill, per non parlare di Pericle, che secondo José Ortega y Gasset (che certo non era femminista) meglio di tutti incarnava la mascolinità in politica. Vale la pena ricordarne i tratti: discrezione nella vita pubblica e privata come base per l’esercizio dell’autorità, rispetto per i punti di vista diversi o contrari, protezione della cultura e delle arti, impegno a migliorare e rinforzare le infrastrutture. Anche oggi per un leader è fondamentale, come dice Francesco «saper dirigere, ma anche saper ascoltare».