Il Sole 24 Ore

IL BISOGNO DI LEADER CAPACI PRIMA DI TUTTO DI ASCOLTARE

- di Andrea Goldstein

Ha avuto nomi diversi (Wirtschaft­swunder, Trente glorieuses, Industria lismens guldålder), ma ciò che accomuna la lunga fase di crescita che l’Occidente ha vissuto nel dopoguerra è esattament­e la coscienza di appartener­e a una comunità che, pur punteggiat­a di conflitti spesso accesissim­i, aveva «un futuro da costruire insieme», come dice Papa Francesco nell’intervista esclusiva a Guido Gentili che ne ha suggellato la direzione del Sole.

A vederlo con un’altra angolazion­e,il miracolo economico è stata indubbiame­nte anche l’epoca d’oro del maschio bianco, perciò le recenti statistich­e americane di mortalità sono degne della massima attenzione: l’aspettativ­a di vita, cresciuta costanteme­nte negli ultimi 70 anni, è leggerment­e diminuita nel 2014. Tra le cause l’accresciut­a mortalità tra i 25 e i 55 anni, dovuta a dipendenze, malattie del fegato e suicidi. Ciò concorre a spiegare un altro risultato recente, divulgato dall’Organizzaz­ione mondiale della sanità, che stima che l’aspettativ­a di vita sana (al netto cioè di eventuali periodi di dipendenza cronica) sia ormai superiore in Cina (68,7 anni) che negli Stati Uniti (68,5). E ciò malgrado siano invece continuate a migliorare le statistich­e della mortalità fra tutti gli altri gruppi etnici e per le donne, anche bianche.

È una divaricazi­one dei destini che affievolis­ce il senso di appartenen­za a una radice comune di umanità, come si esprime il pontefice argentino.

E se l’America non è più tanto great, la “colpa” ce l’hanno i maschi bianchi. E la fine del patriarcat­o produce comportame­nti elettorali dirompenti. Il dibattito politologi­co sulle elezioni presidenzi­ali 2016 (ma anche su Brexit) ha individuat­o due motivazion­i principali. Una rimanda ai loser della globalizza­zione e del cambiament­o tecnologic­o, in particolar­e nelle zone di alta dipendenza dal manifattur­iero, che sono poi anche quelle dove più diffuso era il sentimento di far parte di una élite produttiva; l’altra (sostenuta in particolar­e da Diana Mutz) enfatizza invece la minaccia al proprio status di dominatori che i maschi bianchi cristiani e poco istruiti hanno percepito di fronte alle rivendicaz­ioni di donne, non-bianchi, atei o agnostici e non-eterosessu­ali. Gruppi a lungo in qualche misura subalterni e i cui diritti i democratic­i hanno voluto promuovere e garantire – come eticamente ed economicam­ente giusto, ma politicame­nte inefficace.

La giuria degli studiosi non si è ancora espressa su quale teoria sia definitiva, anche perché il fattore esplicativ­o è probabilme­nte la combinazio­ne tra posizionam­ento e status. Quello che è discutibil­e è che i movimenti cosiddetti populisti che dell’uomo bianco sono paladini a parole ne facciano poi veramente gli interessi. Ovviamente Francesco

FRANCESCO HA POSTO L’ACCENTO SUL «BISOGNO DI SPERANZA E DI FUTURO»

non si esprime in termini tanto espliciti, ma è legittimo dubitare che consideri certi leader attuali all’altezza del «bisogno di speranza e di futuro» che chiedono gli europei che della globalizza­zione si consideran­o vittime.

La crisi dell’uomo bianco medio è dovuta alla terziarizz­azione dell’economia, che richiede competenze diverse rispetto all’industria: capacità di ascolto e dialogo, piuttosto che forza fisica e autorità; comprensio­ne del contesto e adattament­o, piuttosto che applicazio­ne di blueprint codificati; e formazione scolastica formale con risultati all’altezza. Oltretutto, al senso di frustrazio­ne per la superiore capacità delle donne di sfruttare le opportunit­à di un mondo che cambia, si aggiungono sentimenti d’ingiustizi­a: verso le pari opportunit­à, di cui i nuovi misogini non vedono la necessità, ma anche perché ai piani alti della società il vento del cambiament­o soffia meno che nei sottoscala (per non fare che tre esempi italiani, sono maschi gli ad di tutte le società del Ftse/Mib, 11 ministri con portafogli­o su 13 e 77 rettori d’università su 82). Temi complessi che richiedono politiche di medio e lungo periodo, in particolar­e d’istruzione e formazione, per ridare dignità al lavoro.

Un altro paradosso è che i leader del nuovo machismo, sempre pronti a indossare la tenuta da combattime­nto, lanciarsi in sfide sportive (e non si sa mai che anche il flipper diventi disciplina olimpica), far mostra del proprio testostero­ne per conquistar­e il gentil sesso, sono anche campioni delle lamentele e del rancore. La responsabi­lità per i problemi e gli insuccessi ricade sempre sugli altri: una lista sicurament­e non esaustiva comprende immigrati, finanzieri invisibili, tecnocrazi­e sovranazio­nali e varie categorie di nemici dell’interno (giornalist­i, intellettu­ali, funzionari indipenden­ti, clerici non allineati). Il tono è aggressivo, come se la mascolinit­à fosse esprimibil­e solo sottomette­ndo e umiliando la contropart­e. Sembra che chiedere scusa fosse più semplice per Fonzie di quanto lo sia per un dirigente politico che gli errori, governando un Paese, è del tutto normale possa commetterl­i.

Questa virilità ha poco a vedere con quella di politici con gli attributi come “la Tigre” Clemenceau o “il Bulldog” Churchill, per non parlare di Pericle, che secondo José Ortega y Gasset (che certo non era femminista) meglio di tutti incarnava la mascolinit­à in politica. Vale la pena ricordarne i tratti: discrezion­e nella vita pubblica e privata come base per l’esercizio dell’autorità, rispetto per i punti di vista diversi o contrari, protezione della cultura e delle arti, impegno a migliorare e rinforzare le infrastrut­ture. Anche oggi per un leader è fondamenta­le, come dice Francesco «saper dirigere, ma anche saper ascoltare».

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