UN CREDENTE NEL LATO LUDICO DELL’ESISTENZA
La storia di Guido Ceronetti, scrittore, poeta, traduttore, drammaturgo, nato a Torino nel 1927 e spentosi ieri a Cetona, in provincia di Siena, all’età di 91 anni, intercetta quella di un certo Novecento irregolare e percorso contromano, con il piglio tutto scintillante della passione che non fa calcoli e impone strategie. Ceronetti è stato probabilmente l’ultimo scrittore-clown – alla pari del primo Palazzeschi e forse, più tardi, di uno Zavattini –, un raffinato uomo di lettere che non ha mai perduto il senso dell’ironia e dello scherzo quale dimensione stabile di ogni esperienza culturale. Già il fatto stesso di aver fondato, nel 1970, insieme con la moglie Erica Tedeschi, il Teatro dei Sensibili e di averne fatto un’esperienza itinerante di marionette, è un elemento assai indicativo di come egli viveva il racconto del mondo che si vivifica nella scrittura. Di fronte alla tragedia del secolo e ai complicati giri interpretativi che da più parti imponevano un atteggiamente serioso, più votato al tragico che al comico, Ceronetti rilanciava l’ipotesi di una lettura dell’esistenza con il filtro ilare e ludico del divertissement.
Eppure i suoi inizi erano orientati verso una passione che poi non avrebbe mai perduto: la Bibbia come testo orientativo e solenne, a cui attingere con la sacralità che si tributa alle cose serie. E si comprende la scelta effettuata all’interno del “grande codice”: non tanto i libri storici, piuttosto quelli sapienziali, a cominciare dai Salmi, nel 1967, passando attraverso l’Ecclesiaste (1970), poi il libro di Giobbe (nel 1972), poi ancora il Cantico dei Cantici (nel 1975), per finire con il respiro profetico di Isaia, nel 1981.
Un occhio alle date permette di intuire come l’esercizio del confronto con la tradizione veterotestamentaria abbia impegnato Ceronetti per un quindicennio, a prologo cioè della sua scrittura, che non a caso esordisce per una sigla cattolica come Rusconi (poi i suoi editori sarebbero stati Einaudi e Adelphi, oltre che una produzione raffinata per bibliofili con Tallone) e con un’opera dalla natura irriverente nei confronti della modernità, Difesa della luna e altri argomenti di miseria terrestre (1971), scritta mentre le missioni statunitensi dell’Apollo desacralizzavano il nostro satellite, contribuendo a romperne l’incanto. Ma questa dimensione religiosa, che non significava affatto testimonianza di una fede e che il tempo avrebbe condotto su posizioni ecologiste, si era manifestata anche alle origini dell’attività poetica.
Scrivere, secondo la lezione che Ceronetti ci consegna, non è mai stato un mero esercizio di invenzione ma di reinvenzione, non una scrittura ma una riscrittura o, ancora meglio, una traduzione (con tutto ciò che questo termine significa guardando al di là della semplice trasposizione) di ciò che ci arriva dalle biblioteche antiche e che possiede l’autorevolezza per continuare a significare ancora qualcosa per le orecchie di noi contemporanei. Una domanda da farsi sarebbe quella di comprendere fino a dove si sia spinta l’opera dell’interprete e dove sia cominciata l’opera dello scrittore autonomo. Questo è il tema che Ceronetti, con la sua morte, consegna indirettamente agli studiosi. I quali non potranno fare a meno di considerare non soltanto la capacità eclettica nell’uso delle più varie forme espressive ma anche una sorta di inquietudine di fondo che trova spazio proprio dentro l’uso babelico della parola e che molto probabilmente chiede sostegno alle fonti della tradizione (Bibbia, Sofocle, Marziale, Catullo ecc.) per germogliare dentro un tempo che non si lega solo all’edificio di una cronaca, ma vaga in cerca di una quiete.