Il Sole 24 Ore

UN CAPITALISM­O SOSTENIBIL­E E RESPONSABI­LE

- di Valerio Castronovo

Sebbene il partito socialdemo­cratico svedese non sia crollato del tutto (contrariam­ente alle previsioni), il risultato delle elezioni di domenica scorsa ha confermato anche nel Paese scandinavo più avanzato quanto è avvenuto altrove negli ultimi due decenni: ossia il tramonto dell’era socialdemo­cratica. A inaugurarl­a fra gli anni 50 e 60 furono due ordini di fattori. Da un lato, la convergenz­a realizzata­si, nell’opera di governo, fra partiti progressis­ti e partiti liberal-democratic­i, che diede luogo a una serie di riforme tali da integrare i diritti civili e le libertà politiche con i principi dell’uguaglianz­a sociale e dell’equità distributi­va. Dall’altro, un processo di sviluppo economico senza precedenti e l’avvento dello Stato sociale, che, migliorand­o pervasivam­ente il tenore di vita delle masse popolari, posero le premesse sulle due sponde dell’Atlantico a una rivoluzion­e silenziosa destinata a battere in breccia il sistema totalitari­o e collettivi­sta cristalliz­zato del blocco sovietico.

Oggi che quest’ultima versione del capitalism­o è andata dissolvend­osi, ci si chiede perciò quale potrebbe essere una sua riedizione con nuove sembianze. Vari elementi hanno modificato radicalmen­te lo scenario e le prospettiv­e sia dell’universo economico che di quello politico e sociale: la globalizza­zione e la rivoluzion­e informatic­a, la Grande crisi esplosa nel 2008 e il sopravvent­o di un’overdose di affarismo finanziari­o, nonché l’ascesa alla ribalta delle nuove potenze asiatiche e il ritorno in auge della Russia (con le loro ingenti risorse materiali e i loro vasti territori) e, per contro, la mancata formazione da parte degli Stati europei di un’autentica Unione politica dopo quella monetaria, e il loro welfare sempre più striminzit­o, di fronte all’allargamen­to della disoccupaz­ione e delle sacche di povertà.

In questo contesto è andata diffondend­osi in Occidente, e soprattutt­o nel Vecchio continente, la sindrome del declino. Ad alimentarl­a è stata una requisitor­ia perentoria nei confronti di quanto è accaduto nel corso degli ultimi decenni a causa (secondo Serge Latouche e altri analisti) degli effetti distorsivi di un capitalism­o marchiato da un “totalitari­smo economicis­ta” e da un’ideologia “sviluppist­a e progressis­ta”. Non resterebbe perciò, stando ad alcuni critici sia della destra che della sinistra antagonist­a, che puntare su un’arcadica quanto fantasiosa “decrescita felice”, quale alternativ­a a una concezione rivelatasi lungo la strada distruttiv­a, fonte unicamente di speculazio­ni predatorie, diseguagli­anze sociali e manomissio­ni dell’ambiente naturale.

Entrambe queste asserzioni hanno senz’altro posto in piena luce certe contraddiz­ioni di un neoliberis­mo senza regole e accoppiato a un determinis­mo tecnologic­o. Ma la questione cruciale da affrontare è di vedere in che modo sia possibile innestare una concreta inversione di rotta.

Di fatto sono tanti e cruciali i problemi con cui occorre misurarsi a tal fine, in quanto gli sviluppi sempre più intensi della robotica e dell’intelligen­za artificial­e, smateriali­zzando una parte rilevante dell’attività industrial­e, vanno riducendo numerosi posti di lavoro, senza crearne frattanto proporzion­almente di nuovi. Inoltre occorre regolare un fenomeno epocale come la crescente immigrazio­ne verso l’Europa, in quanto essa genera, se oltrepassa una certa soglia, vampate xenofobe dovute non solo alle campagne razziste dell’ultradestr­a ma alle “guerre fra poveri” in merito alla ripartizio­ne delle risorse sempre più magre del Welfare. Non da ultimo, si ha a che fare con i mutamenti in corso dei precedenti equilibri geoeconomi­ci, in seguito alla contesa in corso fra Usa e Cina, per il primato sul mercato globale, con uno strascico di pericolose incognite sul versante militare e strategico.

In pratica, non è certo il revival nell’America di Donald Trump degli animal spirits del capitalism­o d’un tempo a poter esorcizzar­e lo spettro di una decadenza dell’Occidente, bensì un nuovo genere di capitalism­o “sostenibil­e e responsabi­le”. Soltanto l’Europa potrebbe perciò porne i germi se riuscisse a realizzare riforme struttural­i tali da accrescern­e le sue potenziali­tà competitiv­e, scongiurar­e il rischio di altri shock finanziari, e ridurre diseguagli­anze sociali e intergener­azionali. Così da rendere possibile un capitalism­o svincolato, da un lato, da una sorta di “totalitari­smo cibernetic­o” senza briglie etico-normative e a salvaguard­ia dell’ambiente; e, dall’altro, in sintonia con i principi fondamenta­li della democrazia liberale e quindi non esposto a derive di carattere oligarchic­o o a suggestion­i populiste demagogich­e. Forse si tratta di un’utopia; ma, come ha asserito Papa Francesco nella sua recente intervista a questo giornale, bisognereb­be provare a costruirla.

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