Il Sole 24 Ore

Pensioni, ogni anzianità in più pagata da cinque lavoratori

In attesa della manovra la spesa previdenzi­ale continua ad aumentare

- Colombo e Roga—ri

Il cantiere previdenzi­ale non chiude mai. Nelle modifiche che il governo gialloverd­e sta studiando in vista della prossima manovra sotto la spinta della Lega riaffiora il sistema della “quote”, dieci anni dopo la loro “prima volta” nel panorama previdenzi­ale italiano. Dal 1° gennaio 2019, se l’operazione «superament­o della riforma Fornero» andrà in porto, si potrà andare in pensione con «quota 100» e 62 anni di età, solo tre punti in più rispetto a «quota 95-97» con cui Damiano nel 2008 aveva cancellato lo «scalone Maroni» voluto 4 anni prima. Il costo non sarà basso e a pagarlo saranno in primis i contributi dei lavoratori: ne serviranno cinque per pagare ogni nuova anzianità.

Il tema va maneggiato con attenzione, visto il livello della spesa previdenzi­ale, pari al 15% del Pil nonostante le grandi riforme degli anni 90 e il passaggio definitivo al calcolo contributi­vo del 2011. E continua a crescere. Secondo la Ragioneria generale, tra il 2018 e il 2021, il solo adeguament­o degli assegni all’inflazione e le nuove decorrenze porteranno il conto a 22 miliardi.

Avolte ritornano. Le uscite di anzianità con la “quota” si riaffaccia­no esattament­e dieci anni dopo la loro “prima volta” nel panorama previdenzi­ale italiano. Con un restyling dovuto non solo al trascorrer­e del tempo. Dal 1° gennaio 2019, se il governo gialloverd­e manterrà il suo impegno di «superament­o della riforma Fornero», si potrà andare in pensione con “quota 100”, solo tre punti in più rispetto al limite dove si era fermata la contro-riforma Damiano del 2008 che con “quota 95-97” aveva cancellato il cosiddetto “scalone Maroni” concepito quattro anni prima. Il costo non sarà basso e a pagarlo saranno in primis i contributi dei lavoratori: ne serviranno cinque per pagare ogni singola nuova anzianità.

Un cantiere sempre aperto, quello della previdenza in Italia. Un cantiere, peraltro, da maneggiare con attenzione, visto il livello della spesa di cui si parla, pari al 15% del Pil nonostante le grandi riforme degli anni ’90 e il passaggio definitivo al calcolo contributi­vo del 2011. Una spesa che continua a crescere. Un esempio? Ce lo regala la Ragioneria generale nell’ultimo Rapporto sulle tendenze di medio-lungo periodo del sistema: tra il 2018 e il 2021, a normativa invariata, il solo adeguament­o degli assegni all’inflazione e le nuove decorrenze faranno salire il costo di 22 miliardi. Le nuove anzianità hanno in effetti un sapore anche più antico. Introdotte negli anni ’60, sono state via via rimodellat­e sotto il peso di una finanza pubblica in progressiv­o deterioram­ento. Il record storico restano le “baby pensioni” nel pubblico impiego. Correva l’anno 1973: le statali coniugate con prole potevano lasciare il lavoro dopo 14 anni 6 mesi e un giorno. Quasi vent’anni dopo Giuliano Amato, nell’urgenza della più grave crisi valutaria, bloccò per tutto il 1993 le pensioni di anzianità e elevò a regime i requisiti di vecchiaia a 65 anni per gli uomini e a 60 anni per le donne. Tre anni dopo sarebbe arrivata la riforma Dini, che introdusse il sistema di calcolo contributi­vo sia pure con un lunghissim­o intervallo di attuazione (ne erano esclusi i lavoratori con più di 18 anni di versamenti già effettuati al 31 dicembre ’95). A regime la pensione di anzianità diventa accessibil­e con 57 anni e 35 di contributi. Oppure, a prescinder­e dall’anagrafe, con 40 anni di versamenti. La storia successiva è nota. Appena due anni dopo, nel ’97, il governo Prodi I già interviene per accelerare la transizion­e. Ma è nel 2004, con Berlusconi premier e il leghista Roberto Maroni al ministero del Lavoro, che si tenta un freno deciso alla corsa della spesa pensionist­ica. Con tanto di scalone che prevedeva, dal 2008, l’uscita di anzianità con 60 anni di età e 35 di versamenti (ulteriorme­nte in salita negli anni successivi). Troppo per i sindacati e le sinistre. Tanto è vero che un nuovo governo Prodi, ministro del Lavoro era Cesare Damiano, cancella tutto con le sue “quote”, aumentando la spesa di 10 miliardi struttural­i. Seguiranno contromisu­re “soft” (le finestre mobili) e struttural­i (l’aggancio dei requisiti alla speranza di vita) per correggere ancora la curva della spesa.

Fino al 2011, appunto, quando per puntellare un Paese sull’orlo del default il premier Monti e la ministra Fornero cancellaro­no le anzianità e elevarono i requisiti di vecchiaia (67 anni dal 2019). Ancora troppo? Forse sì. O almeno questa era l’idea del Governo Renzi, che ha inventato le nuove flessibili­tà light (Ape sociale e di mercato o cumulo gratuito) per allargare le uscite anticipate. Una contromoss­a che per il tandem Di Maio-Salvini non basta. Per «superare la Fornero» serve di più. In attesa della nuova “quota 100” vale considerar­e un dato finale: per ogni anzianità aggiuntiva serviranno i contributi di cinque lavoratori, ha calcolato la società Tabula di Stefano Patriarca. Sempre ammesso che la nuova occupazion­e arrivi davvero.

Attenzione ai vincoli di bilancio: solo per gli adeguament­i la spesa fino al 2021 può crescere di 22 miliardi

Il cantiere previdenzi­ale va maneggiato con cura: nonostante 30 anni di riforme vale il 15% del Pil

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