Il Sole 24 Ore

La tesi delle Entrate non supera sempre il test di convenienz­a

L’alternativ­a fallimenta­re esclude di per sé i flussi derivanti dal risanament­o

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La tesi dell’Agenzia non è condivisib­ile e conduce a risultati non convenient­i per lo stesso Fisco, come si evince da alcuni casi concreti (si veda la scheda a fianco). Se l’intenzione era quella di trarre vantaggio per le casse dell’erario gli effetti sono per lo più deludenti quando non addirittur­a nulli. Vediamo perché.

L’articolo 182-ter, comma 1, legge fallimenta­re richiede all’attestator­e di confrontar­e l’offerta formulata al Fisco mediante la proposta di transazion­e fiscale con il soddisfaci­mento che questi ricaverebb­e alternativ­amente dalla liquidazio­ne fallimenta­re dell’impresa debitrice.

Pertanto, per quantifica­re tale soddisfaci­mento, l’attestator­e deve considerar­e la situazione che si verificher­ebbe in caso di fallimento del debitore, senza tener conto di scenari non realizzabi­li in tale circostanz­a, qual è quello della prosecuzio­ne dell’attività attraverso modalità e interventi che sono attuabili nel concordato preventivo, ma non nel fallimento; a nulla rileva infatti che nella procedura fallimenta­re potrebbe aver corso l’esercizio provvisori­o dell’impresa, perché si tratta di un fenomeno solo eventuale, per di più dipendente da provvedime­nti degli organi giudiziali che non possono essere previsti, il quale in ogni caso ha finalità e produce effetti ben diversi da quelli derivanti da un concordato in continuità.

La situazione cui l’attestator­e deve far riferiment­o è invece quella prevista dall’articolo 105 della legge fallimenta­re, che disciplina, appunto, la vendita dell’azienda nel suo complesso, dei suoi rami o, anche singolarme­nte, dei beni che la compongono, mediante procedure competitiv­e. Posto che il valore economico, cioè di mercato, di un’azienda è costituito dal valore attuale dei suoi flussi finanziari o reddituali futuri (tranne che nel caso in cui esso risulti inferiore al prezzo realizzabi­le attraverso la vendita dei beni che la costituisc­ono, indipenden­temente dal loro impiego strumental­e), tale valore deve essere determinat­o dall’attestator­e assumendo i flussi che l’azienda può generare nella situazione in cui questa si troverebbe in caso di fallimento, cioè escludendo quei flussi che potrebbero invece essere generati solo grazie al risanament­o conseguibi­le con il concordato. Tra la prosecuzio­ne dell’attività nell’ambito di un concordato e i flussi finanziari che ne discendono esiste infatti un evidente rapporto di causa-effetto, nel senso che questi non possono manifestar­si senza l’attuazione del risanament­o oggetto del piano concordata­rio.

Per questi motivi, tali flussi e la componente di valore economico dell’azienda che da essi deriva non fanno parte del patrimonio del debitore nel caso in cui quest’ultimo venisse dichiarato fallito e non possono quindi concorrere a formare il valore di liquidazio­ne da confrontar­e con quello offerto con la domanda di concordato e con la connessa transazion­e fiscale. È inoltre errato, sotto il profilo logico, valutare la bontà di una proposta di concordato comparando­la con una situazione alternativ­a che non può realizzars­i senza l’attuazione di quella proposta.

Nulla precisa l’agenzia con riferiment­o all’accordo di ristruttur­azione dei debiti, rispetto al quale il principio affermato nella circolare 16/E non dovrebbe comunque trovare attuazione.

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