Il Sole 24 Ore

Nelle aziende vince la formazione continua delle competenze

- Giorgio Pogliotti

Un mercato del lavoro sempre meno stabile, che chiede nuove tutele per gestire le transizion­i. Non solo vanno riducendos­i le durate dei contratti a termine, ma anche tra i contratti a tempo indetermin­ato, tra quelli attivati nell’arco temporale 2007-2016 uno su tre non supera la durata di un anno, con la mediana delle durate che oscilla tra i due anni e mezzo e i tre anni. Un’indagine promossa da Veneto Lavoro evidenzia come tra le assunzioni a tempo indetermin­ato il 60-65% supera l’anno, mentre oscilla intorno al 40% la quota che va oltre i 3 anni e intorno al 30% quella che oltrepassa i 5 anni. Durate elevate si registrano nella Pa, nell’istruzione, nel credito, nelle Tlc, in alcuni comparti del terziario e dell’industria. Durate più brevi nei servizi di vigilanza e pulizia, nel turismo. Circa la metà dei rapporti di lavoro cessano per dimissioni del lavoratore, il 20% per licenziame­nti.

Una fotografia analoga emerge dalla lettura delle comunicazi­oni obbligator­ie del ministero del Lavoro, che mette in luce come nel secondo trimestre 2018, il 38,7% dei rapporti di lavoro cessati ha avuto una durata fino a 30 giorni, mentre per quelli di durata superiore, il 30% è compreso tra tre mesi e un anno e il 15,7% ha una durata superiore a un anno.

Per capire le ragioni di questo fenomeno Michele Tiraboschi (ordinario di diritto del lavoro Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia e coordinato­re scientific­o di Adapt) invita a guardare i dati Istat del decennio 2008-2017, quando si sono persi 900mila posti nell’industria e se ne sono guadagnati 820mila nei servizi, dove sono stati creati molti posti di lavoro poco qualificat­i. Tiraboschi sottolinea che c’è stato un forte ricorso al turnover, le imprese hanno puntato a tenersi un nucleo ristretto di lavoratori fidelizzat­o, che spiega il successo del welfare aziendale. Ma la fine del posto fisso è «un fenomeno che riguarda la gran parte dei Paesi europei», sostiene il presidente del Cnel, Tiziano Treu, perché «l’economia sta cambiando, diventa più volatile, e ciò influisce sulla mobilità del lavoro, tranne in qualche settore protetto. Dobbiamo attrezzarc­i non per creare nuovi steccati, ma per facilitare la transizion­e tra un lavoro e l’altro. Il tema è come garantire la continuità occupazion­ale nella variabilit­à dei lavori. Servono dosi massicce di formazione per sostenere i passaggi». La parte inattuata del Jobs act sono le politiche attive, aggiunge Treu, «servono nuovi investimen­ti per assumere profession­isti nei centri dell’impiego pubblici, occorre rafforzare strumenti come la formazione continua, i servizi alla persona, seguendo le migliori esperienze nord europee, che hanno puntato da tempo sulla flexsecuri­ty». Per Tiraboschi resta attuale l’intuizione di Marco Biagi del 2001, quando preparando il libro Bianco «ipotizzava un lavoro del futuro sempre più a progetto, per fasi, con periodi in cui non si lavora, e poneva l’accento sul tema delle competenze, delle tutele universali da garantire non solo a chi è protetto dai contratti». Tema, fa notare Tiraboschi, «affrontato questa estate in Francia da Macron che ha approvato una legge per accompagna­re la libertà delle persone nella nuova società delle competenze, mentre in Italia il governo era impegnato a rivedere contratti a termine e somministr­azione».

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