Mediobanca, il patto regge: UniCredit allineato agli altri soci
Da Bolloré a Fininvest nessuna disdetta: oggi il cda di Piazza Gae Aulenti Ora focus sulla quota nel Leone, di cui per ora resta prevista la cessione del 3%
Il patto Mediobanca durerà almeno un altro anno: tutti i maggiori azionisti – UniCredit, Bolloré, Mediolanum, Benetton, Fininvest - sono orientati a non sfruttare la finestra di disdetta anticipata che si apre a fine mese. Oggi la questione potrebbe finere sul tavolo del cda di Piazza Gae Aulenti, che - come anticipato da Il Sole 24 Ore sabato scorso - pare ormai aver maturato l’idea di restare nel patto fino al prossimo anno.
E poi? Non è detto che a dicembre 2019 si assista al “liberi tutti”, considerato che almeno il 20% del capitale era interessato a rinnovare il vincolo anche se il patto fosse sceso sotto la soglia del 25% che è stata fissata come base minima per l’accordo. Con risultati netti che sono arrivati a un terzo dei ricavi, e senza fare azzardi (il valore dei crediti deteriorati lordi sugli impieghi totali, già oggi sotto il 5%, viaggia verso il 3%), gli azionisti stabili non hanno grossi motivi di allontanarsi da Piazzetta Cuccia, anche se nel tempo la “missione” dell’istituto è completamente cambiata.
Mediobanca era stata creata con l’apporto delle tre «banche d’interesse nazionale” per erogare credito a medio e lungo termine e aiutare a ricostruire il sistema industriale nel dopoguerra. Da qui le partecipazioni incrociate che, da un lato, servivano a sostenere le società “sotto tutela” e, dall’altro, a stabilizzare l’azionariato di Mediobanca, insieme al patto. Poi sono cambiati gli assetti proprietari e sono cambiate le regole. Tant’è che l’unica delle ex Bin superstite nell’azionariato di Mediobanca, UniCredit (frutto della fusione di due delle tre), oggi più che un alleato è un concorrente, “un’anomalia” agli occhi delle autorità settoriali europee.
La terza generazione del management di Piazzetta Cuccia – l’ad Alberto Nagel e il presidente Renato Pagliaro – non è rimasta a guardare, ma ha guidato invece l’evoluzione, trasformando l’antico centauro – metà holding e metà banca d’affari – in una figura un po’ meno mitologica – più banca retail che banca d'affari – ma maggiormente in grado di stare al passo coi tempi per sostenersi in autonomia.
Delle numerosissime partecipazioni storiche sono rimaste da cedere solo Rcs e Italmobiliare, entrambe ridimensionate intorno al 6%. E poi c’è il 13% di Generali, che fa caso a sé, contribuendo a quasi un terzo degli utili netti del gruppo Mediobanca. Nel piano che termina a giugno c'è la previsione di ridurre la quota di tre punti, scendendo così al 10%, mossa che compenserebbe il venir meno (alla fine di quest’anno) delle agevolazioni concesse dal cosiddetto “compromesso danese” sulla ponderazione dell’asset ai fini dei ratio di vigilanza. Ma se la partecipazione nel Leone non fosse toccata, a parità di condizioni, il Cet1, oggi al 14,2%, sarebbe comunque al 13,1%. Staccare invece la partecipazione nella compagnia, distribuendo le azioni Generali ai soci di Mediobanca, avrebbe l’effetto abbassare il ratio intorno all’11%, ma soprattutto, sottraendo di colpo un terzo del patrimonio, indebolirebbe la banca nella sua capacità di stare sul mercato (limitandone per esempio la partecipazione a consorzi di garanzia) e ne aumenterebbe i costi (quello del funding, in primis).
Mediobanca, insomma, potrebbe permettersi di non cedere quel promesso 3% di Generali, ma non invece di rinunciare tout court alla partecipazione assicurativa se non in presenza dell’occasione della vita. Cosa che al momento non è minimamente all’orizzonte. Azimut non interessa, interessano invece le acquisizioni mirate come quella della boutique finanziaria Messier Maris, che consentirebbe il rafforzamento in Francia. Mediobanca è arrivata ad avere per il 60% un’attività legata al retail attraverso una politica di crescita esterna, a piccole dosi, nelle nicchie più profittevoli. Tant’è che quello in Generali non è nemmeno l’impiego più redditizio. A fronte di un ritorno sul capitale allocato (Roac) che per Generali è del 15% (1213% con la fine del danish compromise), l’area del credito al consumo che fa capo a Compass rende il 30%; l’investment banking il 14%; il wealth management il 13%, che nell’arco di piano dovrà salire al 17-18%.
In sostanza, la trasformazione si è sviluppata lungo tre direttrici: smantellamento delle partecipazioni che le regole avevano fatto diventare una zavorra portatrice di volatilità (le minusvalenze, ancorchè non realizzate, dovevano essere contabilizzate, le riprese di valore invece no); reinvestimento dei proventi delle cessioni (3 miliardi di euro, a valore di libro, realizzati in dieci anni con un capital gain vicino al miliardo) in business redditizi (l’ultima operazione è l’acquisizione indonesiana nel credito al consumo); e, infine, la “normalizzazione” dell’azionariato, con gli investitori istituzionali sopra il 40% e il patto, sotto il 30%, che già oggi è di mera consultazione e lascia liberi tutti in caso d’Opa. Se il patto non ci sarà più, il cda potrà presentare la sua lista. Ma il tutto dovrà svolgersi con la dovuta gradualità, per non destabilizzare né Mediobanca, né l’assetto di Generali, cosa che non sarebbe gradita né nelle sedi istituzionali nazionali né in quelle europee.