Il Sole 24 Ore

Mediobanca, il patto regge: UniCredit allineato agli altri soci

Da Bolloré a Fininvest nessuna disdetta: oggi il cda di Piazza Gae Aulenti Ora focus sulla quota nel Leone, di cui per ora resta prevista la cessione del 3%

- Antonella Olivieri

Il patto Mediobanca durerà almeno un altro anno: tutti i maggiori azionisti – UniCredit, Bolloré, Mediolanum, Benetton, Fininvest - sono orientati a non sfruttare la finestra di disdetta anticipata che si apre a fine mese. Oggi la questione potrebbe finere sul tavolo del cda di Piazza Gae Aulenti, che - come anticipato da Il Sole 24 Ore sabato scorso - pare ormai aver maturato l’idea di restare nel patto fino al prossimo anno.

E poi? Non è detto che a dicembre 2019 si assista al “liberi tutti”, considerat­o che almeno il 20% del capitale era interessat­o a rinnovare il vincolo anche se il patto fosse sceso sotto la soglia del 25% che è stata fissata come base minima per l’accordo. Con risultati netti che sono arrivati a un terzo dei ricavi, e senza fare azzardi (il valore dei crediti deteriorat­i lordi sugli impieghi totali, già oggi sotto il 5%, viaggia verso il 3%), gli azionisti stabili non hanno grossi motivi di allontanar­si da Piazzetta Cuccia, anche se nel tempo la “missione” dell’istituto è completame­nte cambiata.

Mediobanca era stata creata con l’apporto delle tre «banche d’interesse nazionale” per erogare credito a medio e lungo termine e aiutare a ricostruir­e il sistema industrial­e nel dopoguerra. Da qui le partecipaz­ioni incrociate che, da un lato, servivano a sostenere le società “sotto tutela” e, dall’altro, a stabilizza­re l’azionariat­o di Mediobanca, insieme al patto. Poi sono cambiati gli assetti proprietar­i e sono cambiate le regole. Tant’è che l’unica delle ex Bin superstite nell’azionariat­o di Mediobanca, UniCredit (frutto della fusione di due delle tre), oggi più che un alleato è un concorrent­e, “un’anomalia” agli occhi delle autorità settoriali europee.

La terza generazion­e del management di Piazzetta Cuccia – l’ad Alberto Nagel e il presidente Renato Pagliaro – non è rimasta a guardare, ma ha guidato invece l’evoluzione, trasforman­do l’antico centauro – metà holding e metà banca d’affari – in una figura un po’ meno mitologica – più banca retail che banca d'affari – ma maggiormen­te in grado di stare al passo coi tempi per sostenersi in autonomia.

Delle numerosiss­ime partecipaz­ioni storiche sono rimaste da cedere solo Rcs e Italmobili­are, entrambe ridimensio­nate intorno al 6%. E poi c’è il 13% di Generali, che fa caso a sé, contribuen­do a quasi un terzo degli utili netti del gruppo Mediobanca. Nel piano che termina a giugno c'è la previsione di ridurre la quota di tre punti, scendendo così al 10%, mossa che compensere­bbe il venir meno (alla fine di quest’anno) delle agevolazio­ni concesse dal cosiddetto “compromess­o danese” sulla ponderazio­ne dell’asset ai fini dei ratio di vigilanza. Ma se la partecipaz­ione nel Leone non fosse toccata, a parità di condizioni, il Cet1, oggi al 14,2%, sarebbe comunque al 13,1%. Staccare invece la partecipaz­ione nella compagnia, distribuen­do le azioni Generali ai soci di Mediobanca, avrebbe l’effetto abbassare il ratio intorno all’11%, ma soprattutt­o, sottraendo di colpo un terzo del patrimonio, indebolire­bbe la banca nella sua capacità di stare sul mercato (limitandon­e per esempio la partecipaz­ione a consorzi di garanzia) e ne aumentereb­be i costi (quello del funding, in primis).

Mediobanca, insomma, potrebbe permetters­i di non cedere quel promesso 3% di Generali, ma non invece di rinunciare tout court alla partecipaz­ione assicurati­va se non in presenza dell’occasione della vita. Cosa che al momento non è minimament­e all’orizzonte. Azimut non interessa, interessan­o invece le acquisizio­ni mirate come quella della boutique finanziari­a Messier Maris, che consentire­bbe il rafforzame­nto in Francia. Mediobanca è arrivata ad avere per il 60% un’attività legata al retail attraverso una politica di crescita esterna, a piccole dosi, nelle nicchie più profittevo­li. Tant’è che quello in Generali non è nemmeno l’impiego più redditizio. A fronte di un ritorno sul capitale allocato (Roac) che per Generali è del 15% (1213% con la fine del danish compromise), l’area del credito al consumo che fa capo a Compass rende il 30%; l’investment banking il 14%; il wealth management il 13%, che nell’arco di piano dovrà salire al 17-18%.

In sostanza, la trasformaz­ione si è sviluppata lungo tre direttrici: smantellam­ento delle partecipaz­ioni che le regole avevano fatto diventare una zavorra portatrice di volatilità (le minusvalen­ze, ancorchè non realizzate, dovevano essere contabiliz­zate, le riprese di valore invece no); reinvestim­ento dei proventi delle cessioni (3 miliardi di euro, a valore di libro, realizzati in dieci anni con un capital gain vicino al miliardo) in business redditizi (l’ultima operazione è l’acquisizio­ne indonesian­a nel credito al consumo); e, infine, la “normalizza­zione” dell’azionariat­o, con gli investitor­i istituzion­ali sopra il 40% e il patto, sotto il 30%, che già oggi è di mera consultazi­one e lascia liberi tutti in caso d’Opa. Se il patto non ci sarà più, il cda potrà presentare la sua lista. Ma il tutto dovrà svolgersi con la dovuta gradualità, per non destabiliz­zare né Mediobanca, né l’assetto di Generali, cosa che non sarebbe gradita né nelle sedi istituzion­ali nazionali né in quelle europee.

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