Il Sole 24 Ore

CHI INVESTE DALL’ESTERO DÀ STABILITÀ

- di Marco Onado

In attesa della presentazi­one della nota di aggiorname­nto al Def, che segnerà il passaggio dal governo Gentiloni a quello gialloverd­e, il mercato del debito pubblico italiano non fa registrare tensioni particolar­i. È la prova che gli operatori italiani e internazio­nali si attendono una politica economica che non apra un contenzios­o con Bruxelles e dia segnali rassicuran­ti sulla sua sostenibil­ità: tutto sommato quindi un’apertura di credito al nuovo governo. Il paese che ha il debito pubblico più elevato dell’Unione europea non può fare a meno di tener conto delle dinamiche del mercato, domestico o internazio­nale. Rivolgersi a quest'ultimo per collocare i nostri titoli non è stato un errore, come qualcuno ha detto, ma sempliceme­nte la conseguenz­a aritmetica del fatto che i nostri saldi di parte corrente (che misurano il credito/debito netto con l'estero) sono stati nel tempo tali da rendere necessario il ricorso all’indebitame­nto con l’estero.

Solo il Giappone può permetters­i di considerar­e un debito molto elevato (ben più del nostro) come un fatto puramente interno. Fino a che non avremo gli occhi a mandorla, sarà meglio continuare a ragionare con le logiche tradiziona­li.

Ma c’è di più. L’alternativ­a agli investitor­i esteri non sono le famiglie italiane. Le statistich­e dicono che queste possiedono (fine 2017) direttamen­te 217 miliardi di debito pubblico: poco più del 10 per cento del totale. La parte maggiore è detenuta attraverso investitor­i istituzion­ali italiani e stranieri, dunque gestita da operatori che agiscono sulla base delle attese di rischio-rendimento nell’interesse del risparmiat­ore, non diversamen­te da quanto fanno gli operatori esteri.

E comunque va ribadito che gli stranieri che hanno investito in titoli italiani e che negli ultimi tempi hanno mantenuto sostanzial­mente stabili i loro impieghi, hanno mostrato di credere nel nostro paese e non rappresent­ano certo la variabile residuale delle consideraz­ioni in materia di politica fiscale. Il fatto che ci siano anche comportame­nti speculativ­i, alla ricerca di guadagni di brevissimo periodo, non deve far dimenticar­e la realtà economica di base: un paese con un debito pubblico così elevato come l’Italia deve trasmetter­e segnali rassicuran­ti sul proprio debito. Lo ha già fatto venti anni fa aderendo all’euro perché la moneta unica è la barriera che oggi ci protegge (come ci ha protetto finora) da situazioni come quelle di Argentina o Turchia.

Oggi, il primo segnale, soprattutt­o da parte di una maggioranz­a completame­nte diversa da quella che ha retto il Paese negli ultimi anni non può che riguardare la sostenibil­ità del debito accumulato. La polemica di questi ultimi giorni all’interno del governo si gioca tutta su questo punto specifico. La misura del deficit indicata dal ministro Tria è infatti tale da portare ad una riduzione del debito in essere: uno scalino magari piccolo, ma un segnale potente di capacità di rimborso. A giudicare dalla tregua di queste ultime settimane, sembra che i mercati si attendano un valore di deficit molto più vicino a quello del ministro che a quello, prossimo al fatidico 3 per cento, indicato da altri esponenti di governo. Se la bilancia dovesse pendere da quest’ultima parte, non è irragionev­ole prevedere un aumento dello spread che porterebbe fatalmente ad una maggior spesa per interessi ed ulteriori aumenti del deficit e del debito: un’autentica vittoria di Pirro.

Tutto questo non significa rinunciare al confronto, anche aspro, con Bruxelles. Significa che l’oggetto del contendere non devono essere i decimali di deficit, ma le riforme necessarie per arrivare ad un vera condivisio­ne dei rischi, a cominciare da quelli finanziari. I cassetti della Commission­e sono pieni di proposte presentate da economisti e centri di ricerca che hanno a cuore il raggiungim­ento dei fini veri di crescita e solidariet­à dell’Europa. Proposte di vario tipo, da quella degli European Safe Bonds ad altre che affrontano più radicalmen­te il problema del debito accumulato non solo dall’Italia. Perché non bisogna dimenticar­e che continuiam­o a ragionare con i parametri di Maastricht ignorando allegramen­te il fatto che nessun paese europeo, tanto meno la Germania, ha un debito inferiore alla soglia allora considerat­a ideale del 60 per cento. Il fatto è che per tutti i paesi il debito accumulato è come l’elefante nella stanza: una presenza ingombrant­e che è molto comodo ignorare. Ma l’Italia, che capeggia questa classifica, è l’ultima a poterselo permettere.

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