CHI INVESTE DALL’ESTERO DÀ STABILITÀ
In attesa della presentazione della nota di aggiornamento al Def, che segnerà il passaggio dal governo Gentiloni a quello gialloverde, il mercato del debito pubblico italiano non fa registrare tensioni particolari. È la prova che gli operatori italiani e internazionali si attendono una politica economica che non apra un contenzioso con Bruxelles e dia segnali rassicuranti sulla sua sostenibilità: tutto sommato quindi un’apertura di credito al nuovo governo. Il paese che ha il debito pubblico più elevato dell’Unione europea non può fare a meno di tener conto delle dinamiche del mercato, domestico o internazionale. Rivolgersi a quest'ultimo per collocare i nostri titoli non è stato un errore, come qualcuno ha detto, ma semplicemente la conseguenza aritmetica del fatto che i nostri saldi di parte corrente (che misurano il credito/debito netto con l'estero) sono stati nel tempo tali da rendere necessario il ricorso all’indebitamento con l’estero.
Solo il Giappone può permettersi di considerare un debito molto elevato (ben più del nostro) come un fatto puramente interno. Fino a che non avremo gli occhi a mandorla, sarà meglio continuare a ragionare con le logiche tradizionali.
Ma c’è di più. L’alternativa agli investitori esteri non sono le famiglie italiane. Le statistiche dicono che queste possiedono (fine 2017) direttamente 217 miliardi di debito pubblico: poco più del 10 per cento del totale. La parte maggiore è detenuta attraverso investitori istituzionali italiani e stranieri, dunque gestita da operatori che agiscono sulla base delle attese di rischio-rendimento nell’interesse del risparmiatore, non diversamente da quanto fanno gli operatori esteri.
E comunque va ribadito che gli stranieri che hanno investito in titoli italiani e che negli ultimi tempi hanno mantenuto sostanzialmente stabili i loro impieghi, hanno mostrato di credere nel nostro paese e non rappresentano certo la variabile residuale delle considerazioni in materia di politica fiscale. Il fatto che ci siano anche comportamenti speculativi, alla ricerca di guadagni di brevissimo periodo, non deve far dimenticare la realtà economica di base: un paese con un debito pubblico così elevato come l’Italia deve trasmettere segnali rassicuranti sul proprio debito. Lo ha già fatto venti anni fa aderendo all’euro perché la moneta unica è la barriera che oggi ci protegge (come ci ha protetto finora) da situazioni come quelle di Argentina o Turchia.
Oggi, il primo segnale, soprattutto da parte di una maggioranza completamente diversa da quella che ha retto il Paese negli ultimi anni non può che riguardare la sostenibilità del debito accumulato. La polemica di questi ultimi giorni all’interno del governo si gioca tutta su questo punto specifico. La misura del deficit indicata dal ministro Tria è infatti tale da portare ad una riduzione del debito in essere: uno scalino magari piccolo, ma un segnale potente di capacità di rimborso. A giudicare dalla tregua di queste ultime settimane, sembra che i mercati si attendano un valore di deficit molto più vicino a quello del ministro che a quello, prossimo al fatidico 3 per cento, indicato da altri esponenti di governo. Se la bilancia dovesse pendere da quest’ultima parte, non è irragionevole prevedere un aumento dello spread che porterebbe fatalmente ad una maggior spesa per interessi ed ulteriori aumenti del deficit e del debito: un’autentica vittoria di Pirro.
Tutto questo non significa rinunciare al confronto, anche aspro, con Bruxelles. Significa che l’oggetto del contendere non devono essere i decimali di deficit, ma le riforme necessarie per arrivare ad un vera condivisione dei rischi, a cominciare da quelli finanziari. I cassetti della Commissione sono pieni di proposte presentate da economisti e centri di ricerca che hanno a cuore il raggiungimento dei fini veri di crescita e solidarietà dell’Europa. Proposte di vario tipo, da quella degli European Safe Bonds ad altre che affrontano più radicalmente il problema del debito accumulato non solo dall’Italia. Perché non bisogna dimenticare che continuiamo a ragionare con i parametri di Maastricht ignorando allegramente il fatto che nessun paese europeo, tanto meno la Germania, ha un debito inferiore alla soglia allora considerata ideale del 60 per cento. Il fatto è che per tutti i paesi il debito accumulato è come l’elefante nella stanza: una presenza ingombrante che è molto comodo ignorare. Ma l’Italia, che capeggia questa classifica, è l’ultima a poterselo permettere.