Il Sole 24 Ore

Spunta il condono contributi­vo Spending review decisiva

Si parte da un taglio di 3-4 miliardi, nel mirino gli acquisti della Pa

- Colombo, Rogari e Trovati

Gli aumenti dell’Iva non si faranno, la manovra è appesa alla spending review. Nel contratto di governo il taglio agli sprechi occupa il primo posto fra gli interventi per finanziare Flat tax, reddito di cittadinan­za e pensioni, e precede «l’appropriat­o e limitato ricorso al deficit». Si parte da un taglio di almeno 3-4 miliardi, e nel mirino ci sono i «consumi intermedi» della Pa. Una voce però sempre cresciuta più del previsto: nel 2017 è stata di 3,4 miliardi oltre il budget, 2,1 miliardi nel 2016, 3,1 l'anno prima e 5,6 nel 2014. Il Mef lavora per un deficit 2019 intorno all’1,6%. La Lega ora propone una «pace contributi­va» che consenta, a chi può accedere a quota 100, di «sanare» gli anni mancanti di contribuzi­one, con forti sconti per chi deve versare.

Nel contratto di governo il «taglio agli sprechi» occupa il primo posto nell’elenco degli interventi per finanziare Flat Tax, reddito di cittadinan­za e stop alla legge Fornero. E precede la «gestione del debito» e l’«appropriat­o e limitato ricorso al deficit», tornato di strettissi­ma attualità nelle discussion­i di questi giorni. Ma non è solo il contratto a trasformar­e ancora una volta la «spending review» nel perno indispensa­bile per far tornare i conti della manovra. E le tensioni che percorrono il governo e il Mef confermano che la sfida non è semplice.

La ragione è matematica, prima che politica. Prima di partire, la manovra deve affrontare una sfida intorno ai 12 miliardi fra aumenti della spesa per interessi, spese obbligator­ie ed impatto sul deficit della minor crescita. Altri 12,4 arrivano dallo stop alle clausole Iva, confermato ieri in coro dal Governo. Sul punto sono intervenut­i il premier Conte, il ministro dell’Economia Tria ribadendo al Senato l’impegno sul punto assunto in primavera con le risoluzion­i al Def, e i vicepremie­r Salvini e Di Maio. In questo contesto, senza un taglio di spesa da almeno 3-4 miliardi, la quadratura del cerchio rischia di rivelarsi impossibil­e. Anche a prescinder­e dalla «flessibili­tà» su cui Tria sta ragionando con Bruxelles. La linea ufficiale resta di fissare il deficit 2019 attorno all’1,6%, anche se nel confronto con la Commission­e non è escluso che ci si possa avvicinare a quota 2%. Ma non sopra, come pure continuano a chiedere parti della maggioranz­a.

In ogni caso, per avviare davvero il programma di governo non c’è livello «appropriat­o e limitato» di deficit che tenga senza un’altra sforbiciat­a ai costi della macchina pubblica. La cifra da trovare è assai più bassa dei 30 miliardi promessi da Di Maio in campagna elettorale. Ma la sua ricerca è più difficile del previsto. Già prima dell’estate il titolare dell’Economia ha acceso la macchina chiedendo ai ministeri di inviare i propri programmi di revisione della spesa. Ma a pochi giorni dalla Nota di aggiorname­nto al Def il quadro delle risposte è tutt’altro che incoraggia­nte. Ma non è una novità.

Nel mirino dei commissari alla «revisione della spesa» sono sempre finiti i «consumi intermedi», cioè i costi di funzioname­nto della macchina pubblica (affitti, strumentaz­ioni, forniture varie). Ma i costi sono sempre saliti, e sempre oltre gli obiettivi. Basta mettere in fila i Def degli ultimi anni per misurare il problema. Nel 2017 sono arrivati 3,4 miliardi sopra il budget, nel 2016 la spesa extra è stata di 2,1 miliardi, 3,1 l’anno prima e addirittur­a 5,6 nel 2014. E sarebbe andata ancora peggio senza il processo di centralizz­azione degli acquisti con Consip, andato avanti fra mille resistenze. In valore assoluto, allora, i tagli si sono concentrat­i sulla spesa per servizi e sulle politiche previdenzi­ali, oltre che sul pubblico impiego. Ma prima il rinnovo contrattua­le e ora la previsione di un turn over generalizz­ato al 100% segnano il cambio di rotta: e nella Pa centrale, emerge dai dati della Ragioneria generale, il personale assorbe quasi l’86% dei «costi propri». Con questa voce in crescita, trovare risparmi veri è complicato, dopo i tre miliardi in tre anni assicurati dai ministeri con la scorsa legge di bilancio.

La «cura» ha invece colpito duro dalle parti degli investimen­ti, e questo si sa. Meno noto è però che la spesa effettiva, ogni anno, si è fermata molto sotto gli obiettivi già ridotti dai vincoli di finanza pubblica. Negli ultimi due anni gli investimen­ti fissi lordi reali hanno viaggiato due miliardi sotto i budget, e il futuro non promette bene. Il fondo pluriennal­e avviato con la manovra 2017 è ancora inceppato dalla mancata intesa con gli enti locali sulla sua ripartizio­ne: e l’accordo tentato ieri in Conferenza unificata si è scontrato con le polemiche sullo stop al bando periferie. I sindaci hanno rotto i rapporti istituzion­ali con il governo (si veda pagina 20): e il riavvio è rimandato a data da destinarsi.

Servono 12 miliardi per aumenti della spesa per interessi, spese obbligator­ie ed impatto della minor crescita

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