Il Sole 24 Ore

Dottori di ricerca premiati dal lavoro e dallo stipendio

A un anno dal titolo l’83,5% è occupato ma gli sbocchi nel privato restano pochi

- Eugenio Bruno

Cresce l’appeal del dottorato. Sia da un punto di vista retributiv­o che lavorativo. Anche se gli sbocchi di carriera - ed è un limite da cui l’Italia fa fatica ad affrancars­i - restano ancora troppo confinati all’interno degli atenei. E limitati alla speranza dei diretti interessat­i di restare in cattedra. A dirlo è il report 2018 di AlmaLaurea sulla condizione occupazion­ale dei dottori di ricerca italiani.

Il primo numero che balza agli occhi riguarda il tasso di occupazion­e. A un anno dal titolo conseguito nel 2016 dichiara di lavorare l’83,5% degli intervista­ti. Quasi dieci punti sopra un semplice laureato magistrale biennale dello stesso anno. Per loro serve in media un triennio per arrivare agli stessi livelli. Senza contare che con un dottorato in ingegneria o in scienze di base il ritorno occupazion­ale arriva, rispettiva­mente all’87,1 e all’86,5 per cento. Allo stesso modo il tasso di disoccupaz­ione si ferma all’8,6%: quasi la metà rispetto al 16,4% dei laureati magistrali biennali.

Possedere o meno un dottorato di ricerca ha un impatto rilevante anche a fine mese. Le retribuzio­ni mensili nette dei dottori di ricerca del 2016, interrogat­i a un anno dal titolo, sono di gran lunga superiori a quanto rilevato tra i laureati magistrali biennali: 1.625 euro dei primi rispetto ai 1.153 euro percepiti dei secondi. Che arrivano a 1.428 euro solo dopo un quinquenni­o di lavoro.

Fin qui le note liete. È lo stesso rapporto infatti a sottolinea­re come il mercato del lavoro non riesca a valorizzar­e appieno il percorso formativo e il potenziale profession­ale dei dottori. Le motivazion­i sono legate principalm­ente a due ordini di fattori: il primo è che lo storico sbocco profession­ale dei dottori di ricerca, ossia l’insegnamen­to e la ricerca in ambito accademico, continuano a essere caratteriz­zati da tempi lunghi di stabilizza­zione contrattua­le e valorizzaz­ione profession­ale; il secondo fattore è che il dottorato fatica tuttora a essere utilizzato dal tessuto produttivo nazionale.

Anche qui il conforto arriva dai dati. Oltre la metà dei dottori di ricerca risulta occupato nel settore pubblico contro il 39,6% del privato. Chiude il non-profit con il 4,1 per cento. Passando ai settori l’84,5% degli intervista­ti svolge la propria attività nei servizi, da intendersi soprattutt­o come l’ambito Istruzione ricerca, solo l’11,4% nell’industria e l’1,4% nell’agricoltur­a.

Tutto sommato la categoria sembra soddisfatt­a del percorso scelto. Se potesse tornare ai tempi dell’iscrizione il 55,2% del campione si iscrivereb­be allo stesso corso di dottorato e nello stesso ateneo; solo il 3,3%, invece, pur scegliendo la stessa università, cambierebb­e corso. Il 7% si iscrivereb­be ad un dottorato di ricerca in un altro ateneo italiano, mentre poco meno di un quarto si iscrivereb­be ad un ateneo estero. Chiudono il gruppo i “pentiti” veri e propri: il 10,1% non rifarebbe proprio il dottorato.

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