Fondi europei a rischio, l’Italia bussa a Bruxelles
Spesa frenata anche dalla foresta di regole «esterne». Il caso del Pon Metro
L’Italia ha chiesto alla Commissione Ue di ridurre la quota di risorse nazionali nei programmi operativi delle regioni del Centro-Sud (Por) e di alcuni ministeri (Pon). L’obiettivo è evitare il disimpegno automatico dei fondi europei a fine anno. Entro il 31 dicembre, infatti, l’Italia dovrebbe spendere tra i 2,5 e i 3 miliardi di euro se non vuole lasciarli a Bruxelles. Ridurre il cofinanziamento abbassa l’ammontare totale da spendere senza intaccare il contributo europeo. Diversi programmi si apprestano a ricorrere all’escamotage, tra cui il Pon Città Metropolitane: solo 3 città su 14 hanno raggiunto l’obiettivo: Firenze, Milano e Bari.
La spesa dei fondi europei arranca e il governo corre ai ripari per evitare che a fine anno scatti il disimpegno automatico e le risorse restino a Bruxelles. Il capo del dipartimento per le Politiche di coesione della Presidenza del Consiglio, Ferdinando Ferrara, ha scritto nei giorni scorsi alla Commissione europea per chiedere la revisione del tasso di cofinanziamento dei programmi operativi per le regioni meno sviluppate e per quelle in transizione. «Alcune amministrazioni – si legge nella lettera – hanno rappresentato l’esigenza di avvalersi della possibilità di procedere alla riduzione del tasso di cofinanziamento nazionale del proprio programma». Si tratta delle risorse che ciascun Paese membro deve aggiungere ai fondi europei nei vari programmi operativi regionali (Por) e nazionali (Pon). Il tasso di cofinanziamento nazionale è in genere del 50%, ma in alcuni casi scende al 35%. Ridurlo significa abbassare il monte complessivo di fondi da spendere entro i termini previsti e quindi avvicinarsi agli obiettivi intermedi di spesa (regola N+3). La prima scadenza per il disimpegno automatico è il 31 dicembre prossimo e per raggiungere l’obiettivo i 51 programmi italiani dovrebbero riuscire a spendere e a certificare alla Commissione Ue tra i 2,5 e i 3 miliardi, in base agli ultimi dati dell’Agenzia per la Coesione.
Nelle prossime settimane le regioni e i ministeri che hanno necessità di ricorrere a questa “scorciatoia” prevista dalle regole «potranno avviare le procedure di riprogrammazione e inviare le richieste di modifica» alla Commissione che dovrà pronunciarsi, così come dovranno fare i comitati di sorveglianza di ciascuna amministrazione.
Chi potrebbe approfittarne
Per ora nessuno ha chiesto la riprogrammazione, ma secondo indiscrezioni ssarebbero pronti a farlo la Sicilia, il Pon Legalità (gestito dal Ministero dell’Interno) e il Pon Città Metropolitane (gestito proprio dall’Agenzia). È probabile che anche altri si aggiungano alla lista. Si fanno i nomi di Sardegna e Molise. Ma anche le altre autorità di gestione stanno valutando se approfittarne. Molti decideranno dopo l’incontro annuale tra le autorità di gestione dei programmi e la Commissione Ue, che si tiene a Matera giovedì e venerdì prossimi. Le risorse nazionali che vengono «liberate» confluiranno nei “POC”, programmi complementari, saranno monitorate a livello nazionale ma resteranno fuori dalle scadenze europee. I tempi di investimento, quindi, inevitabilmente si allungheranno, come accade regolarmente per le risorse nazionali (si veda Il Sole 24 Ore del 19 settembre). «Mi sono trovata di fronte a una situazione di evidente ritardo che non poteva essere invertita ma semmai contenuta il più possibile - ha spiegato al Sole 24 Ore la ministra per il Sud, Barbara Lezzi - e questo è ciò che stiamo facendo. Come ho detto in più occasioni, fino ad ora i fondi europei non sono stati spesi bene e con efficacia, sia in termini quantitativi che qualitativi. Tuttavia, per noi è fondamentale non perdere la quota di finanziamento e io mi sto battendo perché ciò non avvenga. Voltare le spalle al Sud proprio adesso può avere conseguenze disastrose».
Non è la prima volta che l’Italia ricorre a questo escamotage per recuperare i ritardi. Era già accaduto nel 2012, ministro Fabrizio Barca. L’operazione riguardò complessivamente 11,9 miliardi di euro, assegnati al PAC, Piano di azione e coesione, diventato operativo l’anno successivo.
Il caso del Pon Metro
Tra i programmi “candidati” a utilizzare la scappatoia, come detto, c’è il Pon Metro, particolarmente complesso e unico in Europa. Distribuisce a 892 milioni di euro per lo sviluppo urbano sostenibile alle 14 città metropolitane: 90 milioni per le realtà del Sud e 40 per quelle di Centro-Nord e Sardegna. Ogni città metropolitana gode di ampia autonomia nella gestione delle risorse. Entro fine anno il Pon Metro dovrebbe certificare a Bruxelles spese per 120 milioni ma a luglio era fermo a 32. L’analisi dei dati mostra l’Italia a più velocità. Solo Milano e Firenze avevano già ampiamente superato gli obiettivi di spesa di fine anno: Milano e Firenze. Bari c’era vicina avendo certificato più del 90% della spesa. Delle altre, solo Genova superava il 50%. Roma e Venezia erano al 40%, Reggio Calabria sfiorava il 30% e a seguire Cagliari, Catania, Torino, Palermo, fino ai casi disperati di Napoli, Messina e Bologna tra lo 0,1 e l’1%.
«Serve un Pra nazionale»
La lentezza nella spesa dei fondi europei riflette la realtà di un paese sempre più ingessato. Come e più degli altri, il Pon Metro paga le difficoltà che pesano sulla capacità generale del Paese di realizzare investimenti in tempi ragionevoli e su cui i Piani di rafforzamento amministrativo (Pra) hanno potuto incidere solo in parte perché affrontano solo i nodi interni alle regioni e ai ministeri, ma non incidono sul groviglio di regole e sul contesto generale che frena gli investimenti: dal codice appalti al pareggio di bilancio. «Per un’opera medio-piccola sottolinea un funzionario regionale - servono cinque anni di tempo. Dopo un anno e mezzo dall’avvio, non è stata ancora posata la prima pietra. Servirebbe un Pra nazionale che disboschi questa foresta di regole».